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mercoledì 28 dicembre 2016

A Natale fluiscono i ricordi




                            I NONNI RACCONTAVANO

                            SEDUTI VICINO AL BRACIERE

 

 

 

 

Taranto vecchia

 

 

I tempi della guerra, le bombe, i

 

disastri, le persone incontrate, i

 

paesi visitati, gli utensili.

 

 

 

I nipoti domandavano notizie

 

“d’u strecatùre”,

 

“d’u scarfalìette”, di tanti altri

 

oggetti, e avevano risposte.

 

 

 

 





Franco Presicci


Ci sono momenti in cui non si riesce a frenare i ricordi. Baluginano, incalzano, si ritraggono, ritornano, scorrono come l’acqua dal rubinetto, procurando piacere o rimpianti. Ed ecco, nelle pause delle partite a tombola, aprirsi il sipario sulle vie più battute, i paesi visitati, le persone incontrate o frequentate; gli oggetti usati: il braciere; il lume a petrolio, in uso fino al 1930 e oltre; a “fracère” in rame, da alcuni incastrata nel vano di una pedana, dove si appoggiavano i piedi. Nel braciere si accendeva la carbonella, e quando la cenere ammantava la brace la si rimuoveva con una paletta di ottone. “Non state troppo vicini al fuoco”, era l’esortazione diretta ai ragazzini; “scenò v’avènene le ‘sazizze’ a le jàmme”. Nella cenere si affondavano i ceci e le fave da mangiare “arrustùte” appena raffreddate. I nonni raccontavano storie antiche, ricorrendo alla fantasia quando il magazzino si svuotava. E ancora oggi alcuni vegliardi sono fonti ricche e limpide per nipoti interessati.
'U brustelatùre e 'a statère.
Tieni a mente il ferro da stiro che si riempiva di carboni? Stuzzica Manuèle, un vecchio che può considerarsi ambasciatore del passato. E ‘u brustelatùre d’u cafèje; “’a statère” (la bilancia a molla); l’”assucanghiòstre”, il tampone; “’u scarfalìette”; il grammofono a tromba; “’u macenìne”; “’a cadàre”…? “Fermo lì! – lo blocca simpaticamente la sua pupilla ventenne, versando l’olio “indra ‘a tièdde pe’ le sannacchiùtele e le pèttele” -. “Nella caldaia, ‘a cadàre’, ben sistemata nel buco della cucina in muratura, si bolliva l’acqua per il bucato, si cuocevano i pomodori per la salsa, le cime di rapa nelle famiglie numerose…”. Risposta esatta.

Ferro da stiro e lumi a petrolio.
Tra i “Mi ricordo” chi non vuole essere da meno elenca le ‘caccavèdde’, le ‘rezzòle’, il trapano a mano per ricucire i capasoni crepati; il cilindro di vetro con la pompa utilizzato “p’u ‘nderoclìsme’”…E allarga il campo aggiungendovi i giorni della guerra, la miseria, la fame, la paura; la carta annonaria da presentare anche per i quotidiani 50 grammi di pane a testa; la maschera antigas del capofabbricato. Che – come ricorda Giacinto Peluso in “Taranto: dall’Isola al Borgo” – tra i suoi vari compiti aveva quello di guidare al rifugio assegnato i propri coinquilini, in caso di allarme; e “di adoperarsi perché non filtrasse mai la luce dai balconi”. Peluso, appassionato storico della Bimare, descrive anche i disastri provocati dal conflitto, in via Anfiteatro, in via Pupino, in via Pisanelli…: e la gente che abbandonava le case per trovare riparo a Crispiano, a Martina…
Misurini per l'olio o il vino.
Nella riunione natalizia con i parenti Cosimino, che per l’età biblica è alquanto ascoltato, ha ricordato il soffitto puntellato al piano terra per renderlo resistente (speranza debole) a un “pacco” micidiale che poteva cadere dal cielo; il cassone riempito di sabbia nell’androne, a un metro dal portone, “per difendersi da eventuali schegge distruttive”; le persiane da tenere rigorosamente chiuse al calar del buio per non esporre la zona a un agguato dall’alto; la sirena e il tuono dei cannoni; i palloni frenati sul Mar Grande a protezione, si pensava, delle navi che vi erano ancorate; le strisce di carta incollate con la “coccoina” o con la colla arabica sulle vetrate per scongiurare un altro pericolo: i frammenti di vetro in caso di spostamenti d’aria creati dallo schianto di un ordigno.

Giacinto Peluso
“Nonno, che cos’era ‘‘u strecatùre’”, domanda il marmocchio. E il nonno impartisce la lezione: “Era una tavola scanalata su cui si strofinavano i panni intrisi di sapone. La si teneva immersa ‘indr’a l’acque d’u lìmme’, un vaso piramidale mozzato. La fabbricava un artigiano ambulante, detto ‘strecaturàre’”. “E l’”assucapànne”? “Un intreccio di nastri di legno a forma di cupola che si sistemava sul braciere per asciugare la biancheria”.
Un altro nonno, 83 anni mascherati: “Quando terminò il conflitto, il braciere continuò a lungo il proprio ruolo”. L’alternativa era “‘u uacìle”, la bacinella destinata alle abluzioni. Un episodio raccontato con malcelato scherno aveva come protagonista un giovanotto, che, mandato a prendere ”u uacìle” a casa dai genitori impegnati in una veglia funebre nell’abitazione di un congiunto, ingannato dalla cenere all’apparenza innocua, avvolse l’ingombro in un giornale per nasconderlo durante il trasporto. Il movimento fece riemergere la brace che investì il foglio e il malcapitato fece appena in tempo a non bruciarsi. Chi notò la scena ne fece la cronaca dettagliata con qualche aggiunta ed esplose lo sfottò, sport molto praticato.
“Abbiamo sempre scritto – ricorda Giacinto Peluso in ‘Taranto, da un ponte all’altro’, edito da Mandese - che per un certo periodo della nostra vita abbiamo considerato l’area dove abitavamo (la città vecchia: n.d.a.) un vero e proprio palcoscenico sul quale si avvicendavano ad ore quasi immutabili e nei giorni non festivi personaggi che oggi ci appaiono singolari per le attività che svolgevano. Ad orario fisso, quotidianamente, passava ‘’u conzalùme’”.
'U lìmme.
Chi era costui? “Una figura che aveva un parte importante… per quanto concerneva l’illuminazione”. Sostituiva “’u tùbbe” rotto o riparava “’u bècche”, dentro il quale era infilata “’a gazzettèlle”, lo stoppino che dallo stesso becco affondava nel petrolio. Se “’a gazzettèlle facève ‘u cuèrne”, cioè difettava generando fumo, tagliava la parte annerita. Il mestiere scomparve con la defenestrazione del lume, che si trasferì nei depositi dei rigattieri e a volte in quello “d’u pezzàre”, al quale Diego Fedele ha dedicato una delle sue brillanti poesie: “Scève gerànne d’a matine ’a sère/ cu ‘na carrètta ttòtta sgangaràte; / tenève ind’a ‘nu sàcche le mestère/ c’arrabbattàve pùre/ ce ‘nu vestìte jève già strazzàte”… Chi ha dimenticato “u zepèppe” alzi la mano. “Nà, ‘u zepèppe’, il vaso da notte, detto anche “prìse”, “càndere”, “necessàrie”, “servezziàle”. Sagoma a tuba, oggi ha una sua dignità, assegnatagli dagli amanti delle sopravvivenze di quell’epoca, che vi piantano i fiori.
'U prìse'.

Occorre fatica per non debordare, commentava un amico molto anziano dalla memoria inossidabile, che faceva balenare il vecchio barbuto, scorbutico che era solito a raccogliere i mozziconi delle sigarette Popolari, Macedonia, Nazionali; il postino che urlava negli androni dei caseggiati i nomi dei destinatari della corrispondenza e si fermava a chiacchierare con le massaie; “mèst Necole” che tutti i giorni passava con il carretto carico di frutta; il venditore di “gràtta-gràtte”, bibita colorata ottenuta trascinando una sorta di pialletto su una stecca di ghiaccio (strumento e prodotto portavano lo stesso nome); l’“aùre” e “’u munacjidde” (folletti birichini); lo spazzino che con un sacco in spalla saliva fino ai piani alti per prelevare l’immondizia lasciata fuori della porta; i ragazzini più fortunati che avevano la rana a corda che correva sul ciglio di una pista senza sconfinare; la farfalla che a comando muoveva le ali, il trenino, il motociclista: tutti di latta; e quelli che possedevano sì e no un Pinocchio di legno, e giocavano con una vaschetta piena d’acqua, in cui varavano navi di carta che bombardavano con cinque o sei mollette in funzione aeronautica. Una specie di battaglia navale.

Il braciere.
A Enzo, oggi ottantaquattrenne e medico in pensione, la Befana portò cinque soldatini di piombo. Uno scomparve; e Enzo pensò che avesse deciso di disertare. Invece era stato catturato a tradimento da un discoletto che gli girava attorno. Non potè riprenderlo: vinse la tattica del nemico. Tra le reminiscenze, la guardia Fumarola, un tutore della legge tanto severo da far sorgere la diceria di aver elevato una contravvenzione persino alla moglie colpevole di aver steso i panni sul balcone? “Non è vero”, spiegò il vigile scelto all’autorevole storico Nicola Caputo, tra l’altro autore di “Vieni, c’è una strada nel Borgo”, editrice Scorpione. “Eseguivo soltanto il mio dovere”. Ed eseguendolo aveva perseguito un esercente furbacchione, che lo accusò di maneggiare la penna come uno stiletto; e rincarò la dose inserendo la signora nell’elenco delle “vittime”. Si sa che quando una voce irrompe riesce difficile spegnerla. Eduardo Fumarola faceva onore alla divisa.

mercoledì 21 dicembre 2016

Nella zona dei trulli ad Alberobello




UN POPOLO DI FISCHIETTI

IN VIA MONTE PERTICA

 

 


Trionfa il gallo, antichissimo, simbolo

di fertilità e risveglio, messaggero

d’amore. Da Maria Matarrese, 9 mila

 sculture” guidate da quelle che hanno

vinto, negli anni, il Concorso nazionale

di Rutigliano, in provincia di Bari.

 

 









Franco Presicci


Ad Alberobello il popolo dei fischietti in terracotta abita nella zona dei trulli. Negli esercizi che si susseguono sulle scalinate un po’ consunte dai milioni di passi che le calpestano da anni. Quello più consistente è al civico 9 di via Monte Pertica, sulle mensole di Maria Matarrese, donna dal sorriso schietto e comunicativo, dai modi garbati, familiari.
Maria Matarrese


In certi giorni occorre quasi far la fila per ammirare i vari modelli esposti: il carabiniere con il tamburo appoggiato sulla pancia; il suo collega che con le gote rosse e gonfie soffia nella tromba; quell’altro con i pugni puntellati sui fianchi e le braccia incurvate come i manici di un “capasone” di Grottaglie... Ma anche uomini politici interpretati con sottile, garbata ironia (Berlusconi con le gambe accavallate e l’aria da sfida); attori (Vittorio De Sica colto in un dei suoi momenti brillanti in “Pane, amore e fantasia”, Roberto Benigni con espressione impertinente; Aldo Fabrizi nella sua bonomia) e presentatori (un Maurizio Costanzo sornione); il pagliaccio con i capelli scarmigliati e sgargianti abiti policromi, impegnato con un trombone più grande di lui; la donna panciuta e imbellettata, con l’ombrello che le fiorisce sulla testa…; l’operatore ecologico, il muratore, il ciabattino; e un sindaco che ostenta la fascia tricolore; un vigile urbano che brandisce la penna come una spada; un prete che confessa un penitente con il volto rattristato; l’”Ape” con una coppia nell’abitacolo; l’auto sgangherata stracarica di gitanti, e di valigie sul tetto, posta anche a mo’ d’insegna all’esterno di questa “Bottega del Fischietto” nota ormai ovunque; una prima notte di nozze deludente: lui, baffi cespugliosi, il volto amareggiato, le mani giunte; lei rapita da Morfeo. Tutt’attorno una varietà di animali: il gallo, superbo, dominatore, bello; il maialino che sembra sul punto di grugnire; la rana acquattata su una foglia; il serpente attorcigliato, il gufo, il pulcino, la tartaruga, il gatto ridotto a una nastro sinuoso…Se è libera, Maria guida il visitatore, raccontando la storia degli esemplari più raffinati e degli autori, molti dei quali veri e propri scultori e alcuni docenti nelle scuole di ceramica.

De Sica e Benigni
“Ho tutte le opere, fatte a mano, che hanno vinto il Concorso nazionale del fischietto in terracotta di Rutigliano... Ho aperto la bottega nel 1961…”. E prosegue: “Il gallo è il fischietto più antico e simboleggia la fertilità, il risveglio: il giovanotto lo regalava alla fanciulla da impalmare come messaggio d’amore in occasione della festa del patrono o il giorno in cui il fidanzamento si ufficializzava. Il pavone indica l’immortalità; il trullo, la felicità, ma ora è stato copiato dai cinesi e il significato si è vanificato... Si riteneva che alitando tre volte in un fischietto, a cui tra l’altro si attribuiva una forza apotropaica, si realizzassero i desideri”. Se non fosse assediata dai turisti, Maria dispenserebbe chissà quanti altri particolari, e curiosità.
Chiesa di S.Antonio
Il suo è proprio il regno del fischietto in terracotta. Ce ne sono 9 mila, forse anche di più. Anche un Napolitano, sì, il Presidente che ha preceduto l’attuale: seduto, con ago e filo tra le dita, intento a ricucire la bandiera, da tempo lacerata e non più in grado di unire i connazionali. Siamo ormai sparpagliati, non più “vinculi”, come diceva oltre cinquant’anni fa dal piccolo schermo Peppino De Filippo nei panni di Pappagone, macchietta che storpiava le parole, ma azzeccava, punteggiando con un “eccherecquà”. Gli appassionati non si stancano di ammirare questa moltitudine di oggetti ludici e ornamentali. Zoomorfi o antropomorfi che siano, non hanno sfumature. I loro colori sono elementari, squillanti: verdi, gialli, rossi vivaci…, ispirati dalla natura: dal papavero, dalla margherita, dall’erba, dal fico, dall’ulivo, simbolo a sua volta: di pace, di armonia, di fratellanza…I fischietti evocano il lungo rapporto dell’uomo con la terra. Impastando, accarezzando, lisciando la creta, annaffiandola, con abilità, arte, passione, inventiva, i figuli plasmano in uno stile semplice, lineare, divertente, ardito, mai trasgressivo. Il fuoco fa il resto.

Banda dei Carabinieri
Maria Matarrese ha portato alcuni di questi manufatti in Giappone, donandoli anche al sindaco di una città, che ha ricambiato con un kimono. Sono tanti i nipponici che vanno in pellegrinaggio ad Alberobello, in via Monte Pertica, dalla Matarrese, interessati ai suoi tessuti artisticamente ricamati. Lei non parla la loro lingua, eppure riesce a comprenderli. Conosce i loro gusti, i loro costumi, le loro preferenze. La trovano amabile, affettuosa, molto ospitale. Anche in Giappone le voci corrono; e in via Monte Pertica, quasi di fronte alla chiesa di Sant’Antonio, splendida, solenne, caratteristica, le cupole a forma di trullo, da questa signora bassina, dal viso tondo illuminato, intelligente, paziente anche recentemente sono andati giornalisti della carta stampata e della tivù dell’Impero del Sol Levante. Una “troupe” ha girato scene cinematografiche e un’altra un documentario. Maria merita il titolo di ambasciatrice.
La conobbi qualche anno fa grazie all’indimenticabile pittore Filippo Alto, che amava la Puglia e tutto ciò che la riguarda; e la dipingeva con trasporto. Aveva acquistato una banda dei carabinieri con il fischietto sul di dietro e si trovò tra le mani il doppione del suonatore di clarino. Me lo regalò con una sua litografia raffigurante il campanile della cattedrale di Trani svettante su una cascina, di quelle che una volta costellavano via Tertulliano, a Milano. Mi parlò della Matarrese, del suo esercito in terracotta; della sagra di Rutigliano, dove il giorno di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, si benedicono gli animali e una strada si riempie di bancarelle con migliaia di sagome dotate di fischietto. Ci andai una volta con Peppino Cito di Martina Franca (che “fabbricava” trulli in creta ed era in cerca d’ispirazione); e un’altra volta per un articolo da pubblicare su “Il Giorno”. Era il ’95, e contemplai il galletto del IV secolo a. Cristo.

La gita

L'attesa






M’innamorai dei fischietti e feci un salto ad Ostuni, dove in agosto, nel cortile del municipio, si allestiva una esposizione, in seguito estinta, con campioni che arrivavano anche da Bassano del Grappa e da Caltagirone. Su un banco spiccavano Nilde Jotti in divisa da carabiniere, Giovanni Spadolini, una “band” di clown in miniatura, galli con bargigli aristocratici, grilli, civette, di solito bollate come iettatrici, ingiustamente...Da Maria Matarrese mi calamitano i “caramba”, come il gergo della malavita indica i rappresentanti reali dell’Arma. Mi piacciono le facce severe dei graduati e quelle rassegnate dei sottoposti, foggiati con divertita efficacia; e mi piace questo modo di fare satira. Un visitatore affascinato da un Pulcinella effigiato in un passo di danza commentava: “E’ la testimonianza della grande bravura di chi strappa alla creta queste figure d’arte che suscitano il riso”. Mi venne in mente il fischietto di Elio Vittorini, al centro di un dialogo tra due personaggi nel suo libro “Il garofano rosso”: una Madonna a cavallo. Uno dei due osservava che non esistono Madonne in sella neppure in terracotta. Lui giurava di averla vista, quand’era bambino, sui banchi di una fiera in Sicilia. Era proprio lì; anzi, ce n’erano tante, in quella sagra, in quel “paese attraversato da un fiume di sassi”. Non ne ricordava più il nome.






mercoledì 14 dicembre 2016

Creato da don Giacomo Piazzoli



PRESTIGIOSO E FAMOSO NEL MONDO

IL MUSEO DEL PRESEPIO DI BREMBO



Custodisce e valorizza circa 1500 esemplari eseguiti con tecniche, dimensioni, materiali diversi. 

Provengono da tutto il mondo e da ogni regione del nostro Paese.

Inaugurato nel 1975, vanta un gran numero di visitatori, affascinati dalle
architetture, che vanno dal ‘700 ai giorni nostri. 

Manufatti popolari e opere di notissimi artisti come il Pigozzi, in
mostra attualmente al Pirellone, a Milano.





Franco Presicci


Un Presepe di Franco Presicci
Lo chiamavano affettuosamente “Monsignor Presepio”, per la sua passione per le rappresentazioni plastiche della Natività. Una passione così intensa, che don Giacomo Piazzoli dovette allestire un luogo in cui riunire, valorizzare e custodire tutti gli esemplari, creati da lui o da altri, che possedeva. Per realizzare il progetto, non dovette andare lontano: adeguò un locale di pertinenza della sua parrocchia, a Brembo di Dalmine, in origine adibito a stalla o fienile. L’idea baluginò nel ’70, ma i lavori ebbero impulso successivamente. E all’inaugurazione, il 28 settembre ’75, in occasione del sesto congresso presepistico Alta Italia, la folla, giunta da ogni parte, mostrò tanto entusiasmo, anche per il fatto che proprio un antico ricovero per animali accogliesse centinaia di presepi. E fu colpita dalle suggestive opere in esposizione: circa 250, fra diorami, figuranti, miniature, un grande paesaggio elettronico con grotte, mestieri, luci, fontane, pecorai, Re Magi; francobolli con temi natalizi, intervallati da vetrine didattiche con l’illustrazione delle varie tecniche costruttive e dei materiali impiegati, dal sughero al gesso, alla terracotta, alla cartapesta… Fu dunque un successo. I giornali elargirono notizie del neonato Museo del Presepio, e gli interessati cominciarono ad affluire sempre più numerosi, fino ad arrivare a 15mila nel solo 1980, cifra superata negli anni seguenti.

Con il tempo la collezione si è arricchita: nel ’79, con il grande presepio scenografico dell’artista piemontese Nino Pirlato; con il gruppo scultoreo dell’artista Giuseppe Criscione donato dal Papa Giovanni Paolo II; nell’82 con un’opera monumentale del napoletano Antonio Greco, uno dei degni “discendenti” dei virtuosi del presepio del XVIII secolo, epoca in cui persino Carlo III di Borbone e la moglie trascorrevano le ore libere, lui a confezionare e cuocere modelli (mattoncini, capanne…), e lei eleganti drappeggi. Fu il secolo d’oro del presepio napoletano. La costruzione delle architetture presepiali non era soltanto un passatempo della gente comune. Vi si impegnarono anche notevolissimi scultori, come il Sammartino (1720-1793), che non realizzava soltanto presepi pregevolissimi. Tra gli altri maestri, i fratelli Pietro e Giovanni Alemanno, probabilmente lombardi, autori nel 1478 del presepio per i frati della chiesa di San Giovanni a Carbonara; e il lombardo Pietro Belverte, che nel 1507 scolpì a Napoli statue per i monaci di San Domenico Maggiore. Il presepio partenopeo è famoso per la finezza delle figure e per la spettacolarità dei paesaggi… E’, diceva Matilde Serao, autrice fra l’altro de “Il ventre di Napoli””, la trasposizione della vita popolare quotidiana in un evento universale.


Con tutti i capolavori che via via venivano acquisiti al Museo di Brembo occorreva sempre più spazio; e vi si provvide, estendendo la superficie espositiva a 1200 metri quadrati. Aumentò anche il numero dei volontari, indispensabili per rendere la struttura sempre più efficiente e accogliente e più pronta nel rispondere alle richieste di mostre, in Italia e all’estero, in occasione del Natale, come quella del grande maestro presepista Antonio Pigozzi che lo stesso Museo ha allestito per questo Natale al Pirellone, sede della regione Lombardia.



Don Giacomo Piazzoli, persona dinamica e instancabile, dialogava con le istituzioni pubbliche e private, organizzava conferenze, convegni, esposizioni temporanee in Italia e oltreconfine per far conoscere il Museo, che oggi contiene circa 1.500 presepi, di ogni dimensione, di vari materiali ed epoche, dal secolo XVII ai giorni nostri. Più 15mila pezzi, fra reperti archeologici originari della Terra Santa, stampe antiche, presepi in carta, immagini fotografiche, spartiti musicali, audiovisivi e altro, e una biblioteca specializzata e un archivio storico. Tutto a disposizione di chiunque abbia voglia di approfondire la cultura del presepio. Ci sono voluti anni per reperire e ordinare, con amore e pazienza, competenza e impegno, questo patrimonio. Ed è giusto che gli appassionati ne usufruiscano. Il Museo è aperto tutto l’anno, soprattutto da novembre a gennaio.
Il presepio è fascino, magia, spettacolo, arte, poesia, calore. Il presepio è ricco di simboli: il pozzo, il mulino, il ruscello, la donna con la brocca, la fonte, il laghetto evocano l’acqua, segno di rigenerazione, resurrezione; il pane: Gesù; la ruota del mulino: il tempo che scorre; la fiamma sotto il paiolo della polenta e la lampadina rossa che palpita sotto tre bastoncini in legno: il fuoco purificatore; la cometa: la luce che squarcia le tenebre, indica la strada che porta alla salvezza; l’osteria, il luogo in cui la gente si riunisce e si ristora ricorda il faticoso cammino della sacra famiglia alla ricerca di un alloggio.
Chi entra nel Museo di Brembo resta stupefatto per la bellezza dei presepi, popolati da “personaggi” che qua e là riflettono gli usi, i costumi, i tempi. Danno gioia, per esempio, il presepio trentino in legno, del XIX secolo, di rilevante valore, scoperto in una soffitta e restaurato da don Giacomo; e la forza espressiva dei figuranti, scolpiti da artisti autentici, celebrati. Nelle vetrine sono allineati presepi provenienti da ogni parti del mondo, oltre che dalle diverse regioni italiane, dall’Alto Adige alla Puglia, dove il presepio ebbe il massimo splendore nel Rinascimento, alla Sicilia, alla Calabria, alla Basilicata.


La zona del Bergamasco, come altre in Lombardia, fin dal ‘700 era famosa anche per le statuette del presepio, di ogni grandezza, che vi si sagomavano. Nel corso dell’800 la produzione ebbe una tale diffusione, da far moltiplicare i laboratori e i lavoranti, che per quelle figure si ispiravano agli atteggiamenti che la gente comune assumeva in famiglia e sul lavoro, facendo così di pastori, contadini, dormiglioni, guardastelle… testimonianze di vita sociale.
Ogni regione vanta i suoi tipi di presepio, realizzati utilizzando ciascuna il materiale che preferisce o ha a disposizione: l’avorio, il corallo, la madreperla, il sughero, i sassi, le conchiglie, il gesso, il legno (cimolo in Val Gardena)… La terracotta nel Mezzogiorno, in Romagna, in Emilia (memorabili le opere in creta di Leonardo Bozzetti a Bologna). A Lecce continua la tradizione della cartapesta, adoperata da Giuseppe De Tommasi per fabbricare il presepe esposto nel Natale del 1987 nella sede dell’Ambasciata d’Italia a Washington. Di cartapesta, ma con testa, gambe e braccia in terracotta, i manufatti di Antonio Mazzeo; e interamente di argilla quelli di Marco Serafino a Ruffano; e di Domenico Petraroli a Grottaglie, in provincia di Taranto…


Quanta storia nel presepio. Il presepe, che è anche sogno, attrae, emoziona, coinvolge. Chi lo costruisce s’immerge nella sua atmosfera incantata. Dal Museo di Brembo si esce in uno stato di serenità, di pace, di speranza. Ringraziando don Giacomo, nato da una famiglia umile il 20 gennaio 1920; ordinato sacerdote nel ’47, mandato dal vescovo. monsignor Bernareggi, a Brembo, quartiere creato nel ’46 dalla Dalmine nei pressi dell’agglomerato industriale. Ben presto don Piazzoli manifestò il suo amore per il presepio, trasmettendolo ai parrocchiani, che volentieri lo aiutavano nelle sue elaborazioni, per le quali il sacerdote si serviva anche dell’intaglio e dell’intarsio, imparati da giovane. Nel ’65 si iscrisse all’Associazione italiana amici del presepio e fondò la sezione di Brembo. Studiò la storia del presepe, soprattutto di quello bergamasco; approfondì la conoscenza della Terra Santa,.. Nel ’76 il “parroco del presepio” al Congresso internazionale UnFoPrae di San Sebastian (Spagna) ricevette la massima onorificenza in campo presepistico a livello mondiale. Intervistato da quotidiani, riviste, rai, tivù, partecipò a Portobello, la trasmissione di Enzo Tortora. Morì l’1 giugno 1988, lasciando al mondo un’istituzione di enorme prestigio, un capolavoro: il Museo del Presepio di Brembo, che continua la sua opera.


















mercoledì 7 dicembre 2016

L’ispettore capo Alberto De Simone


UNA VITA VISSUTA NEL PERICOLO

 

TRA ORDIGNI DA DISINNESCARE   


 


da destra: De Simone, Scalfaro, Parisi, Mancino

 

Artificiere presso la questura di Milano, non amava parlare di sé. “Se lo facessi, farei torto ai miei colleghi. Le famiglie vivono ore di ansia”.

 

 

Evitava cerimonie e celebrazioni. Rigoroso, ligio al dovere, molto umano, amato e stimatissimo.

 

 

Era nato in Puglia, a San Donato di Lecce.

 

 











Franco Presicci

A chi non lo conosceva bene poteva apparire freddo, distaccato, legnoso. Invece Alberto De Simone era intriso di umanità. Rigoroso, riservato, schivo ai compromessi, rispettoso degli altri.
Alberto De Simone in azione
 Ispettore capo, dirigente della sezione antisabotaggio della questura, entusiasta del suo lavoro. Evitava le cerimonie e le celebrazioni; cercava di passare inosservato; e quando nei terribili anni di piombo qualche giornalista lo avvicinava per strappargli notizie su una carica appena resa inoffensiva, la risposta era sempre la stessa: “Non spetta a me il compito d’informare”. Nell’aprile dell’86 rifiutò di concedermi un’intervista per il “Giorno”, nonostante fossi autorizzato dal questore Antonio Fariello; e cedette dopo una settimana, a patto che si parlasse, più che di lui, del gruppo che guidava: sei uomini e un robot di nome Willy.
Il questore A. Fariello
Fissammo un appuntamento in un bar, si sedette di fronte a me in un angolo, deponendo una borsa gonfia sul tavolo. Ricordò il chilo e mezzo di tritolo in scaglie innescato con detonatore elettrico e congegno a tempo, collocato nella sede di un punto-vendite di auto a Como, dopo la fuga dal Celio, la vigilia di Ferragosto del ’77, del maggiore Herbert Kappler, comandante della polizia SS a Roma e responsabile, il 23 marzo del ’43, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ricordò le altre trappole mortali architettate, ancora a Como nell’81, nelle vicinanze del nuovo carcere in costruzione (dai lembi inferiori di uno striscione che rivendicava l’abolizione degli istituti di pena, partivano due fili di nailon collegati a due ordigni ben nascosti nella vegetazione, in modo che se qualcuno avesse strappato il telone, sarebbe stato l’inferno); e il 15 luglio dello stesso anno, nella notte dei fuochi, in cui cadde il brigadiere Luigi Carluccio, 28 anni, sposato, un figlio di 8 mesi.
Il prefetto Enzo Vicari con Presicci
Il sottufficiale aveva disinnescato il primo di nove ordigni, venne dilaniato dal secondo. Erano le 2.30. Le bombe erano state disposte davanti ad altrettanti negozi per dare un avvertimento ai negozianti “che chiedono a gran voce la pena di morte; che ingrossano il proprio conto in banca con il denaro degli svizzerotti e dei fuggi-metropoli milanesi”. “Le famiglie degli artificieri vivono momenti di trepidazione”, confidò l’ispettore capo, che in via Fatebenefratelli, e non solo, era stimato e amato, quasi riverito. “Il figlio dodicenne di un collega, avendo intuito il lavoro del padre, ad ogni squillo di telefono si svegliava e chiedeva: ‘La bomba è scoppiata o deve ancora scoppiare?’. Io vivo con mio padre, che ha 85 anni, e non puoi immaginare la sua ansia quando, magari per un mio ritardo dovuto al pullman bloccato nel traffico, pensa che io stia ad un passo dalla fine. Si è detto che nel nostro caso, se l’intervento fallisce, muore il chirurgo, non il paziente”. Gli chiesi di accennare alle qualità di un artificiere, e rispose con poche parole, come al solito senza enfasi: “Prima di tutto, qualità umane. Deve sentire il dovere di tutelare l’incolumità dei cittadini. E deve essere convinto di quello che fa, avere la consapevolezza di svolgere un servizio”.
Controllo del territorio

Un fedele servitore dello Stato, Alberto De Simone, che alla Festa della Polizia del ’93 riceverà la medaglia d’argento al merito civile dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, presenti il ministro Nicola Mancino e il capo della polizia Vincenzo Parisi. Diventammo amici. Con il collega de “Il Corriere della Sera” Alberto Berticelli andammo più volte a pranzo con lui in un ristorante di Porta Venezia. Durante gli incontri De Simone parlava spesso del suo paese d’origine, San Donato di Lecce; del padre, Armando; della sorella, che era rimasta al Sud; e della sua passione per la Puglia, che il tempo non aveva minimamente affievolito, tanto che in luglio o agosto non mancava di soggiornarvi. Mi offrì ripetutamente la sua ospitalità nella casa salentina, ma non ebbi mai l’occasione di accontentarlo. Mi sarei ritrovato volentieri in piazza S. Oronzo, piazza vivace per la gente, per movimento, per varietà architettonica; rotta com’è dall’anfiteatro romano, come scrisse Guido Piovene nel suo libro edito da Mondadori: “Viaggio in Italia”. Allora Alberto De Simone aveva 53 anni, era in polizia da 33, artificiere dal ’67. Già una parte della sua attività mi era nota. Per esempio, che era stato il primo ad arrivare in piazza Fontana, nella Banca Nazionale dell’Agricoltura distrutta da 7 chili di tritolo alle 16.37 del 12 dicembre 1969 (17 morti e 88 feriti); e che era stato lui, nel marzo del ’74, a neutralizzare l’ordigno che nell’intenzione di un gruppo eversivo doveva far saltare in aria la sede de “Il Corriere”, in via Solferino. Sapevo anche di un episodio accaduto nella primavera del ’77 in via Cimarosa, dove sotto un’auto avevano scoperto un manufatto composto da sette candelotti di esplosivo da mina. Con due collaboratori De Simone si avvicinò, avvertendo una specie di soffio provenire dall’involucro, che deflagrò, lanciandoli a sette-otto metri di distanza. “Vedi, se io mi mettessi a raccontare ufficialmente, trascurando i miei colleghi, farei loro un torto grave. Affrontano i miei stessi rischi, vivono le mie stesse paure, sono bravissimi e a disposizione 24 ore su 24; non si considerano eroi, non soffrono di protagonismo, siamo una squadra affiatata, lavoriamo in sinergia, facciamo soltanto il nostro dovere… Ho voluto che all’intervista per ‘Il Giorno’ fossero presenti due miei compagni, non per avere testimoni, per difetto di fiducia, ma perché esponessero, volendo, anche le loro esperienze e i loro stati d’animo”. Poi deviò il discorso su Joe Petrosino, il poliziotto nemico della “Mano nera” di New York, assassinato la sera del 12 marzo 1909, nella splendida piazza Marina a Palermo, dove era andato per individuare e recidere le radici sicule della mafia newyorchese.
Alberto Berticelli
Che cosa c’entra Petrosino? “Fu uno dei primi artificieri. Faceva parte della compagine di specialisti istituita nel 1903 per smantellare il clan che nella Grande Mela costringeva con gli attentati i titolari degli esercizi commerciali a pagare il pizzo”. Anche il nostro Paese vanta artificieri di altissimo livello operativo, al quale hanno contribuito i corsi inaugurati il 27 febbraio del ’68, per volere del Ministero dell’Interno. “Le lezioni – chiosava De Simone – hanno appunto lo scopo di formare elementi espertissimi nell’individuare, riconoscere, rimuovere, maneggiare, disinnescare meccanismi micidiali fabbricati a regola d’arte o in maniera artigianale. Le squadre hanno mezzi cingolati; nuove valigie antisabotaggio dette ‘Trovago’, tute antiesplosione; cani che fiutano l’insidia con la stessa abilità di quelli che aiutano le ‘Fiamme Gialle’ a intercettare hascisc, eroina, coca negli aeroporti e nei depositi-bagagli delle stazioni ferroviarie”. In qualche occasione a Milano è stato impiegato un cane di nome Lorenzo, di stanza alla scuola di Nettuno, infallibile nel captare l’odore della polvere. “E c’è Willy, che, manovrato a distanza, interviene soprattutto nelle situazioni ad alto pericolo. Afferra gli ordigni e li porta in luoghi sicuri. Lo trattiamo come un amico, e lui obbedisce ai comandi senza fare bizze”, aggiunse l’ispettore dopo una dimostrazione in piazza Duomo delle prestazioni del robot, applaudite da una folla numerosa. L’iniziativa rientrava nel programma di Antonio Fariello, “Polizia tra la gente”, che comprendeva anche il libro, ampiamente illustrato, “Milano, una città, una questura”, presentato dal sindaco Carlo Tognoli, dal prefetto Enzo Vicari e dallo stesso Fariello. Alberto De Simone si è spento il 26 giugno del 2011 nella sua abitazione di Lecce, dove negli ultimi tempi si era trasferito. Aveva 78 anni.

mercoledì 30 novembre 2016

Il grande mercante d’arte Guido Le Noci





Guido Le Noci

NELLE SUE GALLERIE ACCOLSE

LE AVANGUARDIE PIU’ ARDITE


Figlio di un eccellente scalpellino della Valle d’Itria, fu amico di Paolo Grassi, Pierre Restany, Dino Buzzati, Raffaele Carrieri e di tantissime altre personalità.

 

 

Pubblicò testi pregevoli su Quasimodo, Montale, Apollinaire e “Martina Franca”di Cesare Brandi, ancora oggi richiesto.




                                   

                                                      
 
 Servizio di



 FRANCO PRESICCI

C’era una volta in via Brera, a Milano, la Galleria d’arte Apollinaire.

Apparteneva a Guido Le Noci, pugliese tenace, geniale, dalla storia lunga e luminosa, dalle scelte ardite, dalla capacità di percorrere strade insidiose, di affrontare le novità senza timore di imbattersi in una tormenta, a suo modo un poeta impegnato non con la parola scritta ma con l’azione.

Pierre Restany e il pittore Elio Santarella
Le Noci accolse, sostenne e diffuse in Italia e in Europa le correnti d’avanguardia anche le più estreme. Tra l’altro, a detta di Pierre Restany, padre del Nouveau Realisme, fu “l’annunciatore milanese e il maestro delle cerimonie del X anniversario” del movimento, che aveva abbracciato con entusiasmo e convinzione. Scopritore di talenti, favorì la palingenesi di artisti dimenticati. Oggi chi, venendo da via Verdi diretto all’Accademia, passa davanti al civico 4, che contrassegnava il tempio di Le Noci, al ricordo è colto da un pizzico di nostalgia. Le Noci era di Martina Franca, città dalle case bianco-latte. Data di nascita 1904, figlio di uno dei più ispirati scalpellini del luogo, ben presto avvertì la propria inclinazione e la consapevolezza di poterla realizzare espatriando, pronto ad affrontare difficoltà, sacrifici, incomprensioni.Il 19 marzo del ’25 scese dal treno alla stazione Centrale, grande ventre metallico che incute timore nei nuovi arrivati; uscì in piazza Duca d’Aosta pensando al paese lasciatosi alle spalle, al sole che in ogni stagione lo benedice. Milano ha il cuore in mano, non emargina, non discrimina, non respinge chi ha buone doti e volontà; e Guido ne aveva davvero tante. Conosceva l’arte dell’approccio, e seppe accostarsi al mondo che sognava. Uno dei suoi primi contatti, la Galleria Pesaro, che prese a frequentare assiduamente. Conobbe Guido Tallone e la sua progenie; Oronzo Celiberti, appassionato di filosofia che gli presentò i comaschi Terragni, Figini, Pollini e altri. Lo attiravano le avanguardie; e in via Manzoni 25 non tardò ad aprire una sede per proporvi disegni di Modigliani, dipinti di De Chirico, De Pisis, Savinio, che l’amico Raffaele Carrieri, poeta e critico d’arte (scriveva su “Epoca” e sul “Corriere della Sera”), originario di Taranto, gli presenterà negli anni 30, fornendogli un’occasione d’oro, dato che Le Noci nutriva per le opere dell’artista, fratello di De Chirico, un’autentica passione.
Già due anni dopo il suo approdo in Lombardia, il grande martinese stilava articoli di critica per “La Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano barese; e lo faceva anche per mantenere saldi i legami con la sua terra. Intanto vendeva i primi disegni. Nel ’43 il salto, inaugurando a Como la Borromini, la sua prima galleria, in cui espone Atanasio Soldati, Giacomo Balla, Bruno Munari… Poi il primo viaggio in auto a Parigi, con due amici. Nel ’50 la Borromini spense le luci. Nel ’53 altro viaggio nella capitale francese, dove incontrò Pierre Restany. Il 17 dicembre del ’54 battezzò in via Brera, a Milano, la Galleria Apollinaire con opere di Modigliani, De Chirico, Morandi, Savinio, Soldati, Borra, Cagli, Campigli, Capogrossi, Carrà Casorati, Meloni, Migneco, Severini, Sironi, Tosi...                                   


Elio Greco con Le Noci
Nel gennaio del ’57 vi espose “Dodici composizioni monocrome” di Klein e disegni e tempere
Le Noci e Christo
di Fautrier per la prima volta nel nostro Paese. Yves Klein tornò all’Apollinaire nel novembre del ’61 per mostrare sculture, bassorilievi di spugne oro, pitture di fuoco... Il 29 novembre del ’70 “Ultima Cena” del Nouveau Realisme. Memorabili anche le esposizioni di Dorazio, Peter Bruning, con presentazione di Restany, Hans Hartung, Fontana, Licini, Mimmo Rotella, Cèsar…; e nel ’66 quella con le sculture di Jean Fautrier. Nel maggio dello stesso anno toccò a Elio Marchegiani. Dal 28 ottobre al 13 novembre a “Manifesto bianco” di Lucio Fontana, in quattro lingue;e poi a Enrico Baj, con poesie visive di Emilio Isgrò…Un’attività intensa, qui solo sfiorata.

Nel 1980 l’”Apollinaire” cessò di vivere. E Dino Buzzati su “Il Corriere d’Informazione”, quotidiano del pomeriggio di via Solferino, pubblicò un necrologio. Il 2 luglio dell’83 scomparirà quasi novantenne Guido Le Noci, il grande mercante d’arte che fu anche raffinato editore di volumi su Montale e Quasimodo, e sullo stesso Apollinaire. Suo lo splendido, prezioso libro del ’68 su Martina Franca, testo di Cesare Brandi e centinaia di meravigliose immagini di Ciro De Vincentis (interni e facciate di chiese, chiostri, portali, palazzi, campanili, volte, “’nchiostre”, stemmi, torri, scene di vita quotidiana…). Brandi qualche anno prima aveva pubblicato con Laterza “Pellegrino di Puglia” e Guido riuscì a riportarlo tra le nostre bellezze paesaggistiche e architettoniche. Grande Guido. Aveva anche in mente di creare un Premio “Apollinaire-Sud”, riservato alla Puglia. Una vita ricca di progetti realizzati e di successi, di conquiste, di atti di coraggio, quella di Guido Lenoci.

Lucio Fontana e Guido Le Noci
Le Noci su un'opera di Christo
Nel ’70, alla fine di novembre, fu l’anima delle celebrazioni del decimo anniversario della fondazione del Nouveau Realisme, fondato da Restany in casa di Yves Klein alla presenza di Arman, Dufrène, Spoerri, Tinguely…La festa ebbe inizio con un’esposizione storica alla Rotonda della Besana; l’accensione della scultura di fuoco di Klein, seguita da tante altre iniziative in vari punti della città. Il bulgaro Christo Javacheff, che aveva imballato la fontana di piazza del Mercato a Spoleto; un pezzo di una valle delle Montagne Rocciose in California…, impacchettò la statua di Leonardo in piazza della Scala e il “re galantuomo” a cavallo in piazza Duomo; ma esplosero polemiche e fu costretto a liberare il sovrano e a rinunciare all’idea d’imprigionare la Cattedrale. Altre scenografie spettacolari in Galleria Vittorio Emanuele e in piazza Formentini con i muri invasi da manifesti strappati di Mimmo Rotella… Fu un’opera di Christo a provocare il mio incontro con Guido. Un pomeriggio del maggio ’63 imboccai via Brera per andare ad un appuntamento in via Fiori Chiari con il baritono Giuseppe Zecchillo (270 opere in repertorio ed esibizioni nei maggiori teatri del mondo) e sulla soglia di un locale al civico 2 notai una branda avvolta in un telo modellato con giri di corde. Mentre la osservavo, una voce alle mie spalle.

“Se vieni in galleria, ti mostro altri suoi lavori”. Guido aveva un sorriso benevolo, uno sguardo comunicativo, i capelli folti. Da allora andai a trovarlo spesso. Mi prese in simpatia, mi promise di farmi conoscere Dino Buzzati e Raffaele Carrieri, mi invitò a cena a casa sua. Quando nel ‘76 al Cida (Centro informazioni d’arte”), nella stessa via Brera, quasi di fronte all’Apollinaire, organizzai un’affollatissima serata pugliese in occasione della pubblicazione dell’inchiesta di Salvatore Giannella sul “Malpaese”, apparsa su “L’Europeo”, rispose al mio appello, facendosi precedere da alcuni quadri, che feci appendere in una sala riservata a lui.
Martina Franca, che rende sempre omaggio ai suoi figli più eminenti, il 7 febbraio 2004 gli dedicò un convegno nella Sala dell’Arcadia a Palazzo Ducale. La figura di Guido venne delineata da Nico Blasi, infaticabile direttore di “Umanesimo della Pietra”, presente fra gli altri il sindaco Leonardo Conserva. Nel corso della manifestazione, venne annunciata la decisione di intestare una piazza (dove sopravvivono le statue scolpite dal padre) all’illustre concittadino, che fu tra l’altro amico di Paolo Grassi, fondatore del Piccolo Teatro con Giorgio Strehler e poi sovrintendente del Teatro alla Scala e presidente della Rai dal ’77 all’80.

































































mercoledì 23 novembre 2016

Aria antica in corso Garibaldi 95 a Milano




                                                                                   

Mario Bardi

TANTE STORIE COMMOVENTI

IN UNA CASA DI RINGHIERA


La solitudine di nonna Caterina.

 

I murales eseguiti da Anna e dai suoi allievi.

 

L’egiziano e l’israeliano che temevano di spararsi addosso nel Sinai, se richiamati.

 

Il pittore Mario Bardi che nel ’68 disegnò il disastro provocato dal terremoto a Gibellina.






Franco Presicci



Casa di ringhiera
Mi affascinano le case di ringhiera, con la loro aria antica. Visitai quelle di via Borsieri, nel quartiere Isola; di corso San Gottardo, al Ticinese... interessato alla vita che un tempo vi si svolgeva; ai giochi che impegnavano i ragazzini; agli artigiani e ai loro laboratori… Cercavo tracce, ricordi da raccontare sul giornale. Un mattino della fine di ottobre del ’76 mi fermai davanti allo stabile di corso Garibaldi 95 - quasi all’angolo con via Moscova – con il timore che avesse bisogno delle grucce. Osservandolo, pensai al maggio 1898, alle barricate erette dai rivoltosi polverizzate dalla carica ordinata da Bava Beccaris: tre vittime, compresa una bambina di 9 anni.
Entrai nel cortile (il primo di tre), dove, sulla destra, si apriva lo studio di un noto e apprezzato pittore: Mario Bardi, siciliano cinquantenne, baffi capricciosi, capelli folti. Mi invitò ad entrare e mi mostrò com’era fatto il luogo in cui lavorava spesso fino a tarda sera e anche la domenica. Le pareti erano quasi coperte da quadri grandi e piccoli; da manifesti di mostre. Il cavalletto era occupato da una tela raffigurante un interno, con in basso a sinistra una piccolissima figura in abito barocco. Amava quello stile, e nei suoi dipinti ne infilava spesso un elemento. Avevo già letto di Bardi; e sapevo che dopo il terremoto di Gibellina, nel 1968, era andato sul luogo del disastro, per poi descriverlo, chiuso in una stanza de “L’Ora” di Palermo, in disegni fortemente espressivi destinati alla pubblicazione sullo stesso quotidiano.
Casa di ringhiera lungo il Naviglio
L’artista conosceva tutta la storia di quella casa di ringhiera. “Fatti un giro e ritorna da me, se vuoi che te la spieghi”, mi disse. Salii al primo piano e al secondo attraverso una serpentina di scale buie e consunte, dalle quali poi sbucò una donna vestita di nero, bassa, la chioma color carbone raccolta sulla nuca, occhi vivacissimi, molto in carne. “Cerca me?”. “No, signora”. “Allora?...”. “Mi chiamo Franco”. “Io Caterina”. E si avviò il dialogo. Aveva sette figli e venti nipoti. Sembrava fatta di ferro, “ma dentro sono vuota”. “Come le va?”. “Come vuole che vada?”. “Che cosa l’ha portata a Milano?”, “La fame”. “Suo marito che fa?”. “Mi aspetta al cimitero”. Era di Mazara del Vallo, paese che non avrebbe mai lasciato, “se non fosse stato per il lavoro… Non sto male qui: se mi lamentassi, farei un torto alla città. Ma sono rimasta sola e mi prende la malinconia…”.
Un angolo della casa di corso Garibaldi
Improvvisamente cigolò una porta e comparve Enrico, che era di Mantova, e da poco aveva finito l’Accademia. Viveva con Maurizia, allieva di Domenico Purificato a Brera. Mi invitò ad entrare per un caffè e notò che fissavo il pianoforte: “Non lo suona nessuno. Quando siamo arrivati era già lì. Non sappiamo di chi sia. Se qualcuno ne rivendica la proprietà può venire a prenderselo”. Sopraggiunse Gianni, un giovanotto alto, massiccio, disponibile. Quando un tavolo si azzoppava o la corda di una tapparella si spezzava chiamavano lui. A Milano vivevano anche i suoi fratelli. La madre era rimasta in Gallura e si sentiva tradita dai figli che avevano voltato le spalle al paese, costringendola a pascolare le pecore da sola. Lei si sedeva su un sasso e si abbandonava al proprio dolore.
Lo scultore Nado Canuti

Ridiscesi, imboccai il secondo cortile. Su una porta a sinistra, la scritta: “Scultore Nado Canuti”. Bussai. Mi si presentò un uomo basso, calvo, grembiule scuro. Anche lui cortese. Mi prese sottobraccio e mi guidò fra decine di opere in bronzo, enormi. Alcune mi sembravano ali o pinne di squalo. “Fanno parte dei ‘racconti del padre’, dedicati a mio figlio”. Le ho appena esposte in una mostra. Nell’angolo del terzo cortile troneggiava un fico. “Lo sai che quando è tempo mangiamo i suoi frutti?”. Mi voltai. La voce era di Adalberto Bertero, un pittore che avevo incrociato altre volte, altrove. Impiegato nella segreteria di redazione di un giornale”, curava anche la rubrica dell’oroscopo. E, siccome sapeva che il direttore lo leggeva, gli regalava sempre previsioni positive. “Come mai da queste parti?”. “Qui ho lo studio. E accanto al mio c’è quello di Mario Ligonzo, un tarantino che lavora al ‘Corriere della Sera’”. Ligonzo? Lo conoscevo. A Taranto aveva curato la pagina politica de “Il Corriere del Giorno”, e aveva avuto una galleria d’arte in via Berardi.
Mario Bardi
Tornai da Bardi, che mi parlò dello spettacolo teatrale che qualche mese prima un aiuto regista di Dario Fo aveva allestito proprio sul tetto del suo studio, avendo come pubblico anche gli inquilini della casa di ringhiera. In prima fila, Anna, compagna di un giovane israeliano e insegnante di educazione fisica in una scuola media. Era l’autrice dei murales che prendevano tutta la parete del suo ballatoio. Li aveva eseguiti con l’aiuto dei propri allievi. Ad Anna piaceva organizzare feste in casa. Durante una di queste si presentò un amico cubano che non sapeva dire da dove venisse e dove andasse. Mentre gli altri sorseggiavano, lui si addormentò su una poltrona. Se ne andò il mattino dopo senza salutare. “Vedi quel paravento Liberty? – riprese Bardi - Me lo ha regalato la padrona dello stabile, una contessa che morendo ha lasciato tutti gli arredi alla governante”. Poi mi disse di due coniugi, che, spaventati dai capelloni (cominciava allora la moda delle capigliature cespugliose), sprangavano la porta di casa alle sette di sera. “In corso Garibaldi 95 sono passati cubani, arabi, israeliani, spagnoli, americani…”. Ai tempi di Pinochet una sera si presentò alla porta di Mario Bardi un cileno che si era perso per le abbondanti bevute. “Dove sta il compagnero Ramirez?”. Chi era costui? . “Ramirez, Ramirez”, insisteva, credendo che l’artista lo avesse nascosto. Il pittore riuscì a convincerlo invitandolo ad entrare.
Lo scultore Canuti con il tenore Mario De Monaco
Commovente la storia di due amici: uno del Cairo, l’altro di Tel Aviv. Mentre i loro connazionali combattevano nel Sinai, erano spaventati dal pericolo di essere richiamati e di potersi sparare addosso. “Se ci mandano al fronte – si promettevano per darsi coraggio - ci mettiamo un cappello rosso in testa e così sul campo ci possiamo individuare”. Partì l’arabo. Il giorno dopo si fece male a una gamba e conquistò le retrovie.
Ugo Ronfani
Mario Bardi, uomo affabile e preparatissimo, aveva insegnato storia dell’arte al liceo scientifico. Aveva moltissimi amici. Tra questi i giornalisti Roberto Ciuni e Ugo Ronfani, il primo direttore de “Il Mattino” di Napoli dopo essere stato al “Corriere”; il secondo critico teatrale e vicedirettore de “il Giorno”, autore de “La toga rossa” e di altri libri sui palcoscenici di Parigi; di interviste a grandi personalità, da Jean Paul Sartre a Simon de Beauvoir… Per anni corrispondente dalla capitale francese, da pensionato assunse la direzione della rivista “Sipario”. A Taranto, al Jolly Hotel, nell’80, organizzò un convegno sul teatro, al quale partecipò anche Ernesto Calindri.
Sono tornato, un pomeriggio di tanti anni fa, in corso Garibaldi. Il portone del civico 95 era chiuso. “Inutile bussare”, mi disse un signore anziano. “Dentro non c’è più nessuno. Si vocifera che lo stabile sia destinato al sacrificio… Qui non dovrebbe essere toccato nulla…è una zona storica. Alla Foppa, nel 1848, i tedeschi, con l’ausilio di una ventina di soldati boemi, fecero irruzione in un abitato, saccheggiandolo, e uccidendo l’accendilampade Francesco Roncari, che aveva tentato di difendere la figlia e la moglie”. Al civico 93 aveva soggiornato per breve tempo Picasso; e chi ricordava il privilegio ne andava fiero. E con orgoglio il custode riferiva dei celebri artisti che vi avevano lo studio: Tallone, Alciati, Solenghi, Ferraguti-Visconti.