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mercoledì 30 marzo 2016

“Scoop” di Gianpaolo Annese, cronista di ottima stoffa


 

MULTATO IL CELLULARE DEL BARBIERE CON LA VOCE DI DONNA SUMMER

“Chi diffonde musica nel suo locale deve pagare”, ha detto il funzionario della Siae che ha steso il verbale. “Meno male che è rimasto muto il telefonino di mia moglie con la colonna sonora di ‘Un pugno di dollari’”, si è consolato il barbitonsore, parlando con il giornalista che ha snidato e pubblicato la notizia...




Franco Presicci 

Mi domando se nella bottega del barbitonsore don Nonò, che potava tutta la famiglia Cammilleri, per il concertino domenicale con chitarra e mandolino di Pirrotta e Spitaleri, il primo ferroviere e il secondo falegname, si pagassero i diritti d’autore alla Siae, nata a Milano il 23 aprile del 1882. Il famosissimo scrittore, Andrea, classe 1925, di Porto Empedocle, padre del commissario Montalbano, non ne fa cenno (almeno così ricordo), ma probabilmente nessun uccellino cinguettò all’orecchio d’un funzionario, e don Nonò se la passò sempre liscia.
Pagina di un calendarietto con la donna in Grecia
Non è stato così fortunato Giuseppe Laiso, 68 anni, che da una vita maneggia pettine e rasoio a Fiorano, in provincia di Modena.
Ecco il fatto. Una sua assistente aveva lasciato sul tavolo il proprio Smartphone, che all’improvviso, ricevendo una chiamata, l’ha segnalata a suon di musica. Galeotto, cacio sui maccheroni per un ispettore della Siae, che ha steso un verbale specificando il brano: “Love to love you baby” di Donna Summer, cantante americana che per i suoi successi negli anni 70 venne insignita del titolo di “Regina della disco music”. “Meno male – si è consolato più tardi Laiso – che è rimasto muto il telefonino di mia moglie, che avrebbe intonato un pezzo della colonna sonora di Ennio Morricone per ‘Un pugno di dollari’ di Sergio Leone con Clint Eastwood; altrimenti le multe sarebbero state due”.
Le conquiste della tecnica, si sa, a volte hanno i loro aspetti negativi, ma non entro nel merito, anche perché non me ne intendo granché; e tra l’altro penso di non correre questi rischi, dato che il mio apparecchio tascabile ha il verso di un usignolo, che immagino, venendolo a sapere, non pretenderà di essere retribuito. Mi interessa invece il discorso sui cronisti, prendendo ad esempio proprio l’autore di questo “scoop” pubblicato sul “Quotidiano Nazionale” e sul “Resto del Carlino”, simbolo di Bologna, il cui primo numero uscì il 21 marzo del 1885 con l’editoriale di Giulio Padovani. Parlo di Gianpaolo Annese, 40 anni, laureato in Scienze della comunicazione, nato a Mola di Bari, residente a Crispiano, trasferitosi a Modena dopo un eccellente rodaggio professionale nella redazione barese di “Repubblica” e all’Adn Kronos, e l’esperienza di sette anni da direttore di “Polites”. Un cronista di ottima stoffa, che con quest’articolo ha assestato un “buco” a tutta la concorrenza, che ha dovuto riportarlo il giorno successivo.
Giuseppe Laiso
Non solo Gianpaolo ha snidato la notizia, ma l’ha riferita con misura, senza enfasi, controllando ogni particolare, interpellando un rappresentante sindacale; la stessa Siae, secondo la quale il barbiere, che smentisce, aveva il telefonino connesso con un amplificatore…Ha dato al lettore tutte le informazioni che gli possono interessare, elencando, in un pezzo d’appoggio (titolo: “Lo Smartphone è sanzionabile solo se attaccato alle casse o usato come radio”), i locali che devono osservare le regole che disciplinano la materia, dagli studi professionali agli ascensori; oltre agli aggeggi come le segreterie telefoniche.
Dice persino come si corrispondono i compensi per i diritti d’autore per la musica di sottofondo e altro ancora. Un servizio completo, puntuale, scrupoloso.
Enzo Jannacci e Franco Bompieri
La notizia è di quelle che fanno discutere; e infatti da giovedì 25 marzo, giorno in cui è apparso lo “scoop” di Annese, sento gente che lo commenta, chiedendosi se sia giusto prendersi una multa per il trillo del cellulare. Sulla “Lilla”, il serpentone che corre nel ventre di Milano senza conducente, un passeggero diceva a un altro che si era messo al sicuro sostituendo “Bella ciao” con la sveglia dell’orologio; e l’altro: “Toh, io ho cancellato “Va, pensiero….”. Non se ne parla soltanto sui mezzi pubblici, tra l’altro bazzicati da suonatori ambulanti di tromba, chitarra, mandolino, fisarmonica (ed è bene, a mio parere, che si chiuda un occhio, come lo si chiuse anni fa per l’artista che sul metro deliziava con il suo violino e poi acquerellava figure sul pentagramma). La polemica è spuntata anche in un mercato rionale. “E’un peccato colpire sistematicamente i lavoratori, soprattutto in questi tempi difficili…”, esplode una signora bassina, sdogata, con tanto di zucchero filato sul capo, mentre il fruttivendolo infila con rabbia le cime di rapa nel sacchetto.
Il prefetto Francesco Colucci nel salone di Salvatore Seccia, al centro
E da un argomento si passa a un altro, comune denominatore il denaro da sborsare. In un negozio soffiava il lamento di un cliente per le librerie risucchiate dal vortice dei canoni di affitto, come la Partipilo, in viale Tunisia a Milano, la Mandese in via D’Aquino a Taranto, per la quale io stesso su Facebook ho emesso un grido di dolore, e tantissime altre. Ma questa è un’altra faccenda. L’episodio della barbieria di Fiorano, oggetto dello “scoop” di Gianpaolo Annese, mi ha procurato un po’ di amarezza. Anche perché amo questo mestiere, che come quello di calzolaio è un’arte e ha una bella storia. Amo l’ambiente in cui viene esercitato e gli arredi, gli utensili: dalla poltrona girevole all’affilarasoi, al bacino, allo spruzzatore, alla tazza per la saponatura… Nel piccolo regno del mio amico mantovano Franco Bompieri, barbitonsore e scrittore, sono esposti in una vetrinetta; e quando vado a trovarlo, in via Morone, a Milano, a due passi dalla casa di don Lisander (il Manzoni, intendo) li osservo e penso a Massimo Alberini, esperto del settore e di circhi, che avrebbe dovuto inserirli nel suo “Collezionismo minore” tra cavatappi, pipe, treni…
Ogni volta Franco tenta di distrarmi proponendomi di dare una regolata alla mia chioma; ma non mi sottopongo al procedimento perché troppo importanti sono quelli che lui e i suoi collaboratori prendono per i capelli. Qualche nome? Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, Enzo Bettiza…Oggi; e ieri? Su quelle poltrone si sono seduti Adriano Olivetti, Indro Montanelli, Luchino Visconti, Enrico Cuccia, Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Marcello Mastroianni…
Pagine di un calendarietto dei barbieri con la bottega nel Settecento
Quello di Bompieri è un salotto, e lo è la barbieria di un altro mio amico, Salvatore Seccia, orgogliosamente di San Ferdinando di Puglia, che ha fra tanti noti clienti Maldini e in passato ha depilato personaggi come Ivanhoe Fraizzoli e Nicolò Carosio, il radiocronista popolarissimo dagli anni 30 al dopoguerra, un buontempone, che da pensionato, seduto a un tavolo del bar (da anni scomparso) di Galleria Unione, quasi sotto il Duomo e, tenendo in mano un bicchiere di whisky, esortava i passanti a farsi sforbiciare da Salvatore, che svolgeva l’attività di fronte. Come in tutti i salotti, in questi “atelier” si chiacchiera, si discute, ci si racconta, si scherza, ci si rilassa, addirittura si stringono amicizie. Era così nella Grecia antica e nella Roma dei Cesari, dove soprattutto Nerone aveva gran cura della sua capigliatura; e Augusto, nell’attesa di essere servito, leggeva e scriveva.E siccome sono ormai uscito dai binari, posso riandare con il pensiero alla barberia che frequentavo da ragazzo, il cui titolare veniva indicato con un soprannome (“Puperùsse”), dovuto alla forma del suo naso. Ci entravo con un compagno di giochi a cui piaceva suonare l’organetto a bocca, acquistato in una festa di paese. La moglie del titolare, che di solito cicalava, sollecitava il ragazzo ad esibirsi, e quello eseguiva. Una sera il marito, rapito dal suonatore, mi fece sanguinare un orecchio. Era uomo fortunato: non incappò mai nei rigori della legge per aver consentito la diffusione della musica nel suo salone. E a Natale fischiava e canticchiava quando regalava ai clienti quei bellissimi calendarietti profumati, detti dei barbieri, che molti ricordano ancora con nostalgia. E avrei concluso così, se alla notizia non fosse spuntata la coda: la Siae ha ribadito la propria versione, che non trova riscontro nel verbale, e da parte sua il barbiere replica che non è vera. Comunque fino ad oggi la multa non è arrivata, forse perchè l’ente ha fatto marcia indietro.
                                                                                   

mercoledì 23 marzo 2016

Il pesante e avvincente lavoro del cronista di “nera”


LA NOTIZIA VA SNIDATA GALOPPANDO
E MANGIANDO PANINI E POLVERE

 

Tre “S” fanno vendere i giornali, diceva il mitico Guglielmo Zucconi, direttore del “Giorno”: Sangue, Sanità e Salute. Alcuni delitti che hanno sconvolto Milano. L’uomo che la notte della vigilia di Natale confessò al “nerista” di aver ucciso due tedeschi nell’ultimo conflitto mondiale.

 




Piero Vigorelli al centro mentre intervista  l'avvocato e il giornalista davanti alla stazione della Bovisa
Franco Presicci
Qual è il bello del lavoro del cronista? - mi domandò una sera un giovane neolaureato in lettere nel salotto di un amico. “State sempre all’erta; trascorrete ore e ore sul marciapiede e a volte intere notti, saltando spesso domeniche e feste comandate; vivete nel timore di un “buco” sparato dalla concorrenza; nel rischio di una smentita o di una querela; uscite al mattino senza sapere dove andare e che cosa fare…roba da cardiopalmo, non ti pare?”.E senza una pausa aggiunse che è il caso a programmare i nostri impegni, o la malvagità umana. Risposi che chi va per questi mari conosce i pesci che lo frequentano; che avevo scelto questo mestiere per passione dopo essermi occupato di circhi, teatro, festival in un vecchio e prestigioso quotidiano: “L’Italia”, poi fusosi con un confratello di Bologna assumendo il nome di “Avvenire”.
Achille Serra e Franco Presicci
Non ho mai sentito come un peso correre in una via scossa da un regolamento di conti; in una trattoria in cui pistole o mitra avevano sparso il terrore, spegnendo vite umane... E ricordai il titolare di un noto night accoltellato in casa da due giovani in cerca di soldi per l’eroina; il pittore ucciso nel suo studio in via Solferino; la donna che fece la stessa fine in un palazzo del centro storico; il ristorante “La strega” a Moncucco, dove, il 2 novembre del ’79, furono ammazzate 8 persone, di cui 7 soltanto perché testimoni; il delitto Isola, il 26 gennaio ’88, in via Morigi. E lui Francesco D’Alessio, fulminato il 26 gennaio ’84 da un’aspirante fotomodella americana (feci il viaggio in treno con lei e i poliziotti da Zurigo, dove era stata scoperta nell’hotel Banphost ed estradata, fino a Chiasso). Infine, un po’ turbato, accennò alla bravissima studentessa diciassettenne aggredita e uccisa la sera dell’8 novembre dell’87 in via Candiani, mentre andava alla stazione della Bovisa per rientrare a casa in treno… Di lei e di altre vittime, che commossero Milano; si discusse nelle trasmissioni su Raidue di Giorgio Santalmassi (“La macchina della verità”), di Piero Vigorelli (“Detto tra noi”); e a “Telefono Giallo” su Raitrè condotto da Corrado Augias, che m’invitò anche per commentare la telefonata che avevo ricevuto, qualche sera prima, da un tale che, presentatosi come l’autore del crimine, mi aveva minacciato di morte se lo avessi ancora definito mostro (ma forse era uno che aveva fantasie sostitutive e s’identificava con l’altro). Il mio interlocutore, ben dotato di volontà e cultura, e così interessato alla “nera" forse coltivava l’idea di intraprenderla. Lo pensai il 29 settembre dell’84 quando il capo della Mobile Achille Serra e il sostituto procuratore della Repubblica Francesco Di Maggio, investigatore coltissimo, severo, oratore arguto e affascinante, alle 2 del mattino arrivarono nel covo di un “boss”, detronizzandolo definitivamente. Il mese precedente era toccato a due luogotenenti dello stesso capintesta a Misano di Rimini, grazie anche alla strategia del vice capo della Mobile Francesco Colucci (oggi prefetto in pensione), che conosceva i misfatti di tutta la criminalità meneghina. Ma non era stato il duetto ad illuminare gli investigatori. E ne ebbi quasi la conferma nell’agosto dell’88, una settimana dopo il mio ritorno da Tunisi, dove sulla spiaggia di Gal el Mel la polizia aveva bloccato la fuga del “Rambo dei mari”, il criminale che aveva assassinato e gettato in acqua, a Porto San Giorgio, una skipper per impadronirsi del suo catamarano. Il capocronista e vice direttore de “Il Giorno”, Enzo Catania, scrisse un libro edito da Marsilio, in cui all’argomento dedicò un lungo capitolo; e ne parlò in una conferenza ad “Antennatrè Lombardia, per la quale “Il Giorno” confezionava il telegiornale, diretto da Aldo Catalani. “Certo è una professione interessante. Quasi quasi, se riesco ad entrare in un quotidiano chiedo di essere assegnato alla ‘nera’. Che ne dici”. “Saresti il benvenuto, tra i cacciatori”.
Caricatura del Prefetto F. Colucci
Perché tale è un cronista che si rispetti. Con una differenza: il cacciatore punta contro gli uccelli per metterli in padella; il cronista, dopo averla vagheggiata, cercata, corteggiata, snidata, dà vita nuova alla notizia. Che va irrorata e mai mollata, come il cane non molla l’osso, diceva Gaetano Afeltra, direttore del “Giorno”. Il cronista deve galoppare, mangiando panini e polvere; osservare, rilevando ogni dettaglio; origliare, interpretare, interpellare investigatori affidabili, ascoltare testimoni; spigolare tra gli amici, i conoscenti della vittima, gli abitanti della zona teatro della tragedia; e se al mosaico manca qualche tessera la serietà, mai colmare il vuoto con la fantasia. Una riprova l’ha fornita nei giorni scorsi Gianpaolo Annese con lo “scoop” che ha avuto in tutta Italia la sua cassarmonica. Io a volte ho avuto dalla mia parte anche la fortuna. Come la notte in cui vidi due tipi far fuoco contro le finestre di una televisione privata. Il fotografo che era con me scattò le foto e il giorno dopo il capocronista, che allora era Enzo Macrì, lunga esperienza a “L’Europeo”, vedendole, mi chiese: “Ma tu la notte dormi o vai a spasso?”. Gli risposi che soffrivo d’insonnia. E a chi attribuire, se non alla fortuna, la notizia che ricevetti al giornale la vigilia di Natale dell’85? A mezzanotte lo squillo del telefono mi fermò sulla porta, tornai indietro e ascoltai la confessione di un lettore dell’hinterland, che, diceva, durante la guerra aveva ucciso due tedeschi. “Sta venendo al mondo il Bambinello e desidero che ai parenti vengano restituiti i corpi”. Feci di tutto per convincerlo ad incontrarmi. Non potevo fidarmi della voce di un anonimo.
Ugo Ronfani
Gli dissi che io ero come un prete e che mai avrei fatto il suo nome. Lo ripetetti almeno dieci volte. Il giorno dopo ero in casa sua. Mi indicò il luogo della sepoltura, il paese, Reggiolo (Reggio Emilia), le circostanze del fatto. Scrissi il pezzo; quasi una pagina. Il magistrato ordinò di scavare e il racconto venne confermato. Il direttore, che allora era il mitico Guglielmo Zucconi, m’incaricò di andare sul posto, vicino a Brescello, il paese dei film di Peppone e don Camillo. Al ritorno incrociai nel corridoio del secondo piano Guido Gerosa e Ugo Ronfani, due pilastri del “Giorno”, penne aristocratiche, cultura sconfinata, entrambi vicedirettori, che si complimentarono con me. Zucconi mi scrisse una lettera, che conservo. I ricordi sono come le ciliegie. Soprattutto quando qualcuno li stimola. Una notte dei primi anni ’80 io per “Il Giorno” e Vittorio Feltri per “Il Corriere della Sera” seguimmo la polizia in una decina di controlli in locali notturni alla moda. Alle due del mattino mi si avvicinò una specie di mastino imbottito d’alcol, accusandomi di aver sorriso alla sua donna: una modella dalla bellezza sfolgorante. Negai con garbo. E lui mi battè una mano sulla spalla, invitandomi a una bevuta. Addolcii il rifiuto, tirando in ballo l’ulcera e mi lasciò in pace. Era uno dei duri della mala. Ne conoscevo il nome e il “curriculum”. Mi capita ancora di essere interpellato per fatti di cronaca del passato. Tre anni fa fui invitato anche alla trasmissione su Rai2 di Magalli in occasione dell’uscita di un libro su un “manager” della malandra ucciso anni fa barbaramente. Oggi scrivo di quei fatti solo su questo giornale. Il giovane che mi aveva tanto interrogato? Fa il giornalista; ed è di stoffa buona. Ma non si occupa di “nera”, almeno per ora. Ci siamo visti ancora e gli ho ricordato le parole di Zucconi, successore di Afeltra nell’80: “Tre ‘esse’ fanno vendere i giornali: sangue, soldi, salute”.

mercoledì 16 marzo 2016

Dal “Boeucc” al “Savini”, al “Caffè della Peppina”


LA STORIA DI MILANO NEI SUOI LOCALI CHIC


 Alla trattoria “La Pesa” lavorò Ho Chi Minh; al “Camparino,  in Galleria sorseggiarono il Bitter Umberto I e Edoardo VII d’Inghilterra . 
La pizza fu lanciata nel 1929 dal “Santa Lucia” di Leone Legnani. Al “Cova”, in via Montenapoleone, a mezzogiorno prendeva l’aperitivo con le amiche la Wandissima.

 

 

  Servizio da Milano di Franco Presicci 

Premio “Miglior cronista 2002”

 


Giovanni Verga nella città del Porta, dove arrivò nel 1872, fu circondato da rispetto e stima, e lavorò assiduamente. “Provasi davvero la febbre di fare”, confidò in una lettera a Luigi Capuana. Trascorse molti pomeriggi nel salotto letterario della contessa Clara Maffei, in via Bigli, stringendo amicizia con Arrigo Boito, Emilio
Trattoria della Pesa
Praga, Torelli-Vollier e rapporti con gli Scapigliati; prese parte a convegni culturali; frequentò la Scala; scrisse “Milano per le vie”, racconti sulla realtà milanese; e fu sospirato e amato dalle donne. Abitò in corso Venezia, poi a Brera; e predilesse il Biffi, data di nascita 1847, in Galleria, famoso per i panettoni che facevano gola a Pio IX e per essere con il Cova e il Savini un ritrovo di altissimo livello. Di caffè, pasticcerie, ristoranti prestigiosi ce n’erano tanti anche allora a Milano I primi sorti attorno al Duomo, nella zona dei Cappellari. Molti allestivano solenni banchetti in occasione di eventi importanti, qualcuno proprio in onore di Verga. Come le “Tre Marie” e il “Craja”, che fra gli anni ’30 e ‘40, a sentire Alfonso Gatto, “fu una piccola stazione planetaria da cui partire per l’Europa illuminata, lontana da noi come un astro di Klee”: giudizio probabilmente condiviso dai critici Giancarlo Vigorelli, Beniamino del Fabbro, Sergio Solmi, Giansiro Ferrata…dai poeti Sinisgalli, Sereni; dai pittori Birolli, Treccani, Guttuso,
Wanda Osiris
che vi si riunivano, magari ammirando la fontana di Fausto Melotti, in fondo a uno degli ambienti (che a Carlo Belli pareva un vagone a tre scompartimenti), dando vita a dibattiti accesi. “E’ morto anche il caffè – si lamenterà Gatto - nel darne conto/ il cronista dirà: qui, sui divani del Craja/ i sogni attesero il domani”. Leggendario, fu il primo esempio di architettura moderna. Il Caffè della Peppina non è solo il titolo di una canzone dello “Zecchino d’oro” ’71.
Era anche il nome di un luogo conosciutissimo di Milano, in via del Cappello, dove si davano appuntamento artisti, professionisti, letterati, e cospiratori, che Giovanni Visconti Venosta definiva democratici. Magnifico, classe 1867, arredi di Eugenio Quarti, il Camparino, in Galleria, dove Umberto I arrivava da Monza per il piacere di gustare al banco il favoloso Bitter. Lo sorseggiarono anche il re d’Inghilterra Edoardo VII; Marinetti, Boccioni, Albertini…Uno dei simboli di Milano, è gestito da Teresa, figlia del grande pugliese di Andria, il compianto Guglielmo Miani, che lo rilevò per la sua passione per Milano. Al Caffè Greco, al Rebecchino, si ritrovava con amici e avversari Pietro Verri, che con il consenso dei soci dell’Accademia dei Pugni, da lui fondata, dette al suo giornale il nome della mitica bevanda. Non c’è spazio per raccontare tutti i locali della vecchia Milano. Alcuni hanno spento da tempo le luci. Ma altri, signorili, raffinati, rinomati, arredamenti firmati, atmosfere romantiche, servizio eccellente, continuano la loro attività.
Ingresso Boeucc
Il “Boeucc”, per esempio, che proprio in questi giorni ha compiuto 320 anni. Aperto come osteria nel 1696, fece un grandissimo salto di qualità. Nel ’79 l’acquistò Paolo Brioschi, impreziosendone il fascino, l’eleganza. Al compimento dei 300 anni Paolo invitò tutta Milano a un brindisi. Scomparso lui nel 2005, la figlia Monica, che lo conduce assieme al marito Marco Fuzier (primo “chef” Marco Pasi), a questo tempio dell’arte culinaria, in stile classico ha affiancato il Boeucc-bistrot.
Una sala del Boeucc
Una volta questo gioiello era in via Durini; poi si trasferì nella sede odierna di piazza Belgioioso, nel palazzo che fu del “Giovin Signore” del Parini. Uno dei clienti più affezionati era Guido Piovene, che si presentava con la moglie, si accomodava fra le colonne schizzate dal Piermarini, avendo accanto maestri e cantanti della Scala, intellettuali, industriali…Eduardo de Filippo dopo aver cenato nella saletta dei pittori, dichiarò che i migliori spaghetti con pomodoro e basilico al di fuori di Napoli venivano preparati in questa cucina, che conserva tracce della storia meneghina. Memorabili anche il “Do colonn” e “I serv”, le cui vetrine si affacciavano in Corsia dei Servi. E che dire del Grand Hotel et de Milan, solenne, sfarzoso ancora oggi? Vi passarono Mascagni, Hemingway e tante altre personalità.
Wanda Osiris al Santa Lucia
Giuseppe Verdi vi trascorse gli ultimi giorni di vita, Si racconta che per impedire alle carrozze di disturbare il riposo del Maestro fosse stata cosparsa di paglia tutta via Manzoni. Il primo disco del tenore Enrico Caruso venne registrato proprio in quest’albergo, dove negli anni ’50 il mio amico tonsore e scrittore Franco Bompieri, titolare dell’Antica Barbieria Colla di via Morone, a un passo da Casa Manzoni, fece la barba al principe de Curtis, che, come dirà, scherzando, lo stesso nobiluomo, mangiava grazie a Totò. Un innamorato di Milano, Gaetano Afeltra, sbarcato da Amalfi a Milano nel ’38, trovando alloggio in una pensione che si specchiava nel naviglio Martesana (dal ’42 in via Solferino, diventò vicedirettore del “Corriere della Sera”, direttore del “Corriere d’Informazione”, trapiantandosi nel ’72 sul ponte di comando del “Giorno”), in “Milano, amore mio” ha descritto sette locali storici, compresi il “Peck” e il “Campari”.
“Nascono quasi in uno stesso momento – annota - la Galleria e il Savini, che allora si chiamava Birreria Stocker, una birreria di lusso… per appuntamenti di affari e di cuore. Ma a trasformare la birreria Stocker e a ribattezzarla fu un giovanotto venuto dalla Valcuvia: Virgilio Savini”. La Galleria era già un salotto e lui nel suo ventre ne creò un altro, “più esclusivo”. E su quei divanetti di velluto rosso s’intrattennero D’Annunzio, Pirandello, Guido da Verona, Renato Simoni, Ugo Ojetti, Toscanini, Gigli, la Duse, la Gramatica, la Simionato…”. Profanato dalle bombe del ’43, venne ricostruito e la sera del 26 dicembre ’50 inaugurato, attirando Lana Turner, Ava Garden, Charlie Chaplin, Grace di Monaco… Nell’Antica Trattoria della Pesa in via Pasubio 10, nel ’33,
Placido Domingo al Santa Lucia con dedica
sfaccendò Ho Chi Minh (nel ‘64 nominato presidente del Vietnam), che a Londra nel 1915 era stato aiuto chef pasticciere del “re dei cuochi” Auguste Escoffier. Sulla facciata dello stabile milanese in cui ebbe dimora, di fianco al locale, campeggia una targa che lo ricorda.
La trattoria spuntò nel 1880 sotto la guida della famiglia Calatti e fu subito scoperta da Arrigo Boito, dal pittore Angelo Dal Boca, dal giornalista Arnaldo Fraccaroli. Li seguirono Pietro Arrigoni, Giuseppe Prezzolini, Curzio Malaparte, Pier Paolo Pasolini ed altri.
La storia del “ Santa Lucia” ebbe inizio, grazie a Leone Legnani, nel 1929, in via Agnello, con i piatti napoletani, tutta roba genuina, e la pizza, che i milanesi non apprezzarono subito, sospettosi come sono con i primi venuti. Così la squisitezza sferica scodellata dal forno a legna era richiesta solo dai poliziotti e dai cronisti di nera del “Corriere della Sera”, Talloni, Guidorossi, ecc., del turno di notte in questura, che allora era nella vicina piazza San Fedele.
Ma decollò grazie all’idea di regalarne un pezzo con un frutto a chi dalle 16 alle 19 ordinava un quartino di vino o un bicchiere di birra. Si chiudeva alle tre del mattino, quando attori e cantanti, tra cui Josèphine Baker, Yves Montand, Paolo Stoppa, Sergio Tofano, la Osiris, Mastroianni, Totò, Angelo Musco…, in cartellone al Nuovo o all’Odeon, si alzavano per andare a dormire. Nel ’57 si traslocò in via San Pietro all’Orto 3, con i “vip” e i 400 ritratti di celebrità, da Mascagni a D’Annunzio, che al Gambrinus di Napoli avrebbe scritto il testo di “Vucchella, per dimostrare a Ferdinando Russo che anche un abruzzese poteva esprimersi in dialetto napoletano.
Un detto circola da circa 90 anni: “Se si è in compagnia di una bella donna bisogna andare al Santa Lucia’”. Lo riporta Mariangela Rossi nel capitolo “Quella carezza di Mastroianni”, contenuta nella bellissima ‘brochure’ fatta pubblicare due anni fa dall’attuale titolare Alberto Cortesi: “Ottantacinquesimo anno tra palcoscenico e cultura”, curata da Enrico Guagnini. Al Cova, in via Montenapoleone, lussuoso, servizio accuratissimo, mèta in ogni ora di distinti signori, base a suo tempo del “Club dell’Unione” e del “Jockey Club”, dei patrioti delle Cinque Giornate, e punto di ritrovo di Cairoli, Garibaldi, Mazzini, Verga, Bacchelli, Boito…, a mezzogiorno compariva la Wandissima per conversare con le amiche, prendendo insieme l’aperitivo. Era una signora dolce, affabile, discreta. Ricordo la sua bellissima casa in via Sant’Andrea, con il maggiordomo in divisa.

mercoledì 9 marzo 2016

Franco Presicci, spericolato cronista in terra e in cielo


Presicci, Bergner e la moglie dell'amm.re del. Henkel

Dalle notti trascorse nei viali di Milano al volo in mongolfiera, interrotto dal temporale, per il quale si è meritato il titolo nobiliare di “Principe di Lenno” 

 

Incontri con la malandra in locali malfamati. La medaglia con l'immagine della Madonna regalata dalla donna
che aveva abbandonato il clan per farsi suora laica. 

 

Franco Presicci 


Peripatetica sulla circonvallazione
“Non dimenticherò facilmente quel cronista…”, scrisse Gigi Gervasutti sul quotidiano di Varese “La Prealpina”, che dirigeva. Un cronista spericolato, e a volte anche un po’ incosciente. Accettò d’incontrarsi per un’intervista, verso mezzanotte, con una “dura” in una cantina tetra e molto mal frequentata nell’estrema periferia di Milano, pur non escludendo che potesse essere una trappola per qualche articolo non gradito (e invece ricevette in regalo una medaglietta con l’immagine della Madonna dalla donna vestita da suora laica, “perché convertita dopo aver sentito la voce di Gesù mentre, pistola in pugno, andavo a vendicare un compagno chiuso in cella”). Bussò alla porta di un brigatista appena arrestato e fu respinto minacciosamente da una giovane impetuosa. Macinò chilometri alla ricerca di un ex rapinatore per convincerlo a parlare a volto coperto della sua carriera in televisione nella trasmissione “Fuori Orario” condotta da Davide Riondino, e concluse il percorso in un locale affollato di giocatori d’azzardo che gli puntarono contro occhi torvi e intimidatori. Un giorno di Pasqua andò a casa di una famiglia malavitosa per rivolgere domande su uno dei figli finito in carcere con l’accusa di aver partecipato a una sparatoria, e gli si parò di fronte un mastino, la madre, che digrignava mostrando pugni di ferro. Rischiando di essere riconosciuto, trascorse notti nelle bische all’aperto per osservare il movimento. Nel febbraio dell’81 fu un riverito e temutissimo capoclan a chiedergli un incontro al termine di un’udienza in tribunale.
Lui la cronaca amava farla così. Se un informatore lo svegliava alle 2 di notte per avvertirlo di un delitto, si alzava, telefonava al fotografo di un’agenzia, che passava a prenderlo, e via verso il luogo del fattaccio.
E stava attento a ogni particolare, persino alla marca del pacchetto delle sigarette lasciato sul cruscotto, se le armi avevano colpito il bersaglio al volante; o al numero dei tavoli e al cibo rimasto nel piatto, se la vittima era stata sorpresa al ristorante; o addirittura allo stato del marciapiede, al numero dei negozi e all’illuminazione della strada teatro del regolamento dei conti. E faceva domande ai “detectives”, oltre che ai presenti, che potevano aver visto una persona sospetta, l’ora esatta degli spari o conoscere notizie utili sulla vita della vittima. Il fotografo, Dante Federici, non era di quelli che, scattate un po’ di foto, diventava impaziente. Sapeva che la notte era ormai finita anche per lui, dovendo subito andare in camera oscura e stampare.
Decollo aerostati
Il telefono squillò di notte anche quando i sequestratori liberarono un ostaggio; quando la polizia arrestò un “boss” inafferrabile; e quando, nel febbraio’85, stavano per mettere in manette l’ex fidanzata del Vidocq milanese che aveva tentato di evadere dal carcere di Maiano di Spoleto; appurando qualche giorno dopo che non era lei la ragazza vista aggirarsi sotto le mura del penitenziario in attesa dell’evento, Quella volta il cronista svegliò all’alba il vicedirettore del giornale, Enzo Catania, uomo dalle decisioni immediate ed efficaci, sentendosi dire di farsi prendere subito dall’autista e partire. Catania aveva un lungo e brillante “curriculum”: a vent’anni si era catapultato attraverso una finestra nella stanza di un posto di polizia in cui erano trattenuti dei mafiosi appena acciuffati e a 31 da inviato speciale del settimanale “Tempo Illustrato” diretto dal barese Nicola Cattedra in sella a un mulo aveva girato l’Aspromonte con il mago dell’obiettivo Uliano Lucas.
Enzo Catania in sella al mulo sull'Aspromonte 45 anni fa
Era avvincente lavorare di notte. Percorrere la circonvallazione esterna per un’inchiesta sulla prostituzione, raccogliendo storie di minorenni che avevano scelto liberamente il mestiere antico; di maggiorenni costrette da avidi magnaccia, che lottizzavano i marciapiedi… Scoprì un individuo “protettore” della propria moglie e di una batteria di “professioniste”; la ragazza tossicomane che in attesa dei clienti leggeva “Topolino”, e il travestito “Filippa”, che si vantava di essersi collaudato a Parigi.. Quando il 4 aprile dell’81 la polizia arrestò i brigatisti Moretti e Fenzi nei pressi della stazione Centrale, il cane da tartufi passò tutta la notte sulla strada per rintracciare il covo al quale i due erano diretti. Una soffiata gli indicò una casa di ringhiera, dove, al quarto piano, erano appostati cinque o sei investigatori speranzosi di poter catturare altri terroristi. Poi andò a casa di Moretti, ma il citofono
Lago di Como dall'alto
rimase muto. Lo incontrò anni dopo nel carcere di Opera al termine di una rappresentazione teatrale e si fece dare da lui una fotocopia del discorso che aveva tenuto sull’iniziativa. E fece uno “scoop” quando lo stesso personaggio ottenne un permesso di pochi giorni da trascorrere nell’abitazione di un amico. Sono indimenticabili quegli anni. E anche dolorosi. L’8 gennaio del 1980 sotto il ponte di via Schievano i mitra crepitarono contro tre poliziotti del commissariato Ticinese: Santoro, Tatulli e Cestari; rientrato in servizio dopo un infarto proprio quella mattina. Una settimana prima i tre erano stati a cena con i colleghi e il cronista in una trattoria di piazza Sant’Eustorgio. Santoro non era giocoso come al solito: forse per un presentimento.
Febo Conti legge i nomi degli equipaggi
Ma la memoria libera anche le festose domeniche della Stramilano dei 50 mila, tra i colori dei pettorali firmati dallo stilista Ottavio Missoni, persona cordiale e scherzosa, e dai cartelloni, dalle bandiere, dagli ombrelli fioriti sulla marea scatenata ed esaltata da migliaia di spettatori contenuti in piazza Duomo dalle transenne e ansiosi di vedere le prime file della maratona rompere l’argine umano e schizzare verso piazza San Babila, prendendo di sorpresa anche la tromba dei bersaglieri. Al posto di ristoro di viale Tibaldi la fiumana si frangeva, e allora il cronista scendeva dalla macchina e coglieva l’entusiasmo soprattutto degli ultraottantenni, come Samuele Jannuzzi, di Barletta, che sembrava avere il motore nelle gambe.
L’episodio più emozionante fu quello del 22 settembre del ’73, giorno in cui la Henkel organizzò una gara internazionale di aerostati. Il via era fissato per le 15 allo stadio Senigaglia di Como, dopo che i vigili del fuoco avevano finito di pompare elio nei palloni, tenendo, durante l’operazione, tutti a distanza di sicurezza. Il numerosissimo pubblico applaudiva freneticamente i pancioni che si sollevavano a uno a uno, mentre Febo Conti,
Titolo nobiliare
allora famosissimo presentatore e Ridolini della tivù, al microfono faceva i nomi degli equipaggi. L’ultimo ad alzarsi fu il narratore, ospite nell’aerostato della Germania occidentale, pilota Wulf Bergner. Emozionante salutare la terra che si rimpiccioliva e poi osservarla da 1400 metri in un silenzio surreale. Da quell’altezza le auto erano quanto quelle delle piste per bambini, e gli scafi che scivolavano sul lago baffi d’acqua. I guai arrivarono con il temporale, che sbatacchiò la cesta contro una montagna, scodellando gli occupanti su una cengia. La pioggia era rabbiosa e l’unico riparo una catapecchia cosparsa, a dirla con garbo, di olive caprigne. Le ore incalzavano, si faceva buio, Bergner sparò un paio di bengala per farsi individuare dalla Range Rover che doveva recuperarci; e terminammo la discesa, preoccupati della sorte di un pallone, che volando a 4 metri, aveva toccato un filo dell’alta tensione incendiandosi. L’ultimo atto fu un rito: l’ospite, avendo navigato per la prima volta, doveva essere investito di un titolo nobiliare. In una taverna il pilota gli cosparse il capo di sabbia e birra pronunciando una formula in tedesco. L’interessato seppe dell’onore ricevuto quando dalla Germania gli giunse una “brochure” che lo proclamava principe di Lenno. Ma attenti a non chiamarmi sua altezza, anche perché sono alto uno e sessanta, e questo titolo vale solo sul canestro dei palloni.


 

mercoledì 2 marzo 2016

IL PREMIO DI GIORNALISMO PER DIRE GRAZIE A MILANO


De Grada, Chechele, Nennella e Valentini

Michele Jacubino, titolare del ristorante “La Porta Rossa”


Nato ad Apricena, Chechele adorava la Puglia. Lo scrittore Mario Dilio vedeva in lui l’ambasciatore della nostra terra in Lombardia.
Sempre pronto ad accogliere e a promuovere iniziative tese ad esaltarla, fondò anche un premio per i pittori che la celebravano.

 

Giovanni Valentini - Gino Palumbo - Franco Di Bella e Alberto Cavallari, i vincitori delle prime tre edizioni



Il ristorante La Porta Rossa, nato negli anni '70 dalla passione di Chechele e Nenella (come i clienti più affezionati chiamano i titolari), nel tempo è diventato un punto di riferimento per gli amanti della cucina pugliese a Milano. Oltre a offrire prodotti e piatti tipici come le orecchiette alle cime di rapa, La Porta Rossa è anche uno dei pochi ristoranti di Milano dove si può mangiare la pizza alla pugliese, che viene cotta nella tiella.



Milano, 2 marzo 2016

Franco Presicci

Tre amici da tempo scomparsi fanno l’occhiolino da una foto emersa da una scatola di cartone custodita come uno scrigno. Sono i pittori Filippo Alto e Ibrahim Kodra, e il critico d’arte Raffaele De Grada, seduti a un tavolo del ristorante “La Porta rossa”, in via Vittor Pisani, a pochi passi dalla stazione Centrale, a Milano.
L’immagine risale al ‘74, quando in quel locale, anfitrione Michele Jacubino, detto Chechele, fu tenuto a battesimo il periodico “Il Rosone” di Franco Marasca, padrino Antonio Velluto, allora giornalista della Rai e assessore all’Edilizia popolare: persona colta, generosa, indicata come il principe per i suoi modi garbati. Era di Troia - come Marasca - il paese in cui nacque Antonio Salandra, uomo politico dei primi del ‘900.

Il rettangolo di carta ha stimolato la memoria, che ha lasciato scorrere tante figure, nitide, ingrandite come sotto una lente: Chechele, che accoglieva i clienti a braccia aperte, e scambiava con loro poche battute in attesa dei piatti. Era noto, rispettato e amato. Sempre sui giornali per le iniziative che ospitava. Telemontepenice, un’antenna pavese diffusa non solo in Lombardia, mandò una telecamera a riprenderlo nel suo regno, frequentato anche da molti personaggi illustri, tutti amanti dei sapori e dei profumi della nostra terra. Lui ne andava orgoglioso. Intelligente, dinamico, entusiasta; basso, pienotto, occhi neri, capelli color carbone e lisci, alla Rodolfo Valentino, un volto da caratterista del teatro di Eduardo, era nato ad Apricena, uno dei luoghi cari a Federico II, che probabilmente vi scrisse il trattato sulla caccia con il falcone.
L’amore di Chechele per la Puglia era grande, e lo dimostrava in mille modi, tanto che Mario Dilio, giornalista e scrittore (sua la storia della Fiera del Levante pubblicata dall’editore Adda),
Alto, Nennella, Giacovazzo, Chechele
già capo ufficio stampa dell’Alfa Romeo a Milano, gustando di fronte a Filippo Alto le orecchiette preparate da Nenella, moglie e sostegno di Chechele, dichiarò che il vulcanico apricenese meritava di essere nominato nostro ambasciatore al Nord. Qualcuno captò il discorso, e il giorno dopo l’investitura era cosa fatta. La notizia colse Dilio a Bari, dove ormai viveva, e la riferì divertito al suo amico Vittore Fiore, figlio di Tommaso, che con “Un popolo di formiche” vinse il Viareggio nel ’52.“Io voglio bene ad Apricena, ma anche Milano, che mi ha dato mille soddisfazioni”, confidava Chechele. “In questa città straordinaria che non chiude la porta a nessuno ho potuto cementare i miei mattoni e sono circondato di amici…Vengono a trovarmi non solo quelli che come me innaffiano ogni giorno il proprio amore per la Puglia…”. E volgeva lo sguardo alle centinaia di immagini di attori famosi appese al muro di fianco all’ingresso e dietro la cassa. “Hanno cenato qua; arrivavano verso la mezzanotte, dopo che al Manzoni, all’Odeon o al Nuovo era calato il sipario” Tra gli avventori anche un fiume di turisti, “mamma quanti! E io li esorto a visitare Bari, Taranto, Lecce, Massafra, Martina Franca…, che possiedono bellezze introvabili altrove”. Gli brillavano gli occhi. Una sera ad un cliente di San Severo domandò se fosse vero che al suo paese davanti ai negozi sventolavano le bandiere”. “Erano bandierine rosse che fremevano fuori delle cantine: ne parla Giovanni Russo nel suo ‘Baroni e contadini’, libro uscito nei primi anni 50”. La risposta provocò altre domande. Oltre ad essere espansivo, era curiosissimo.

Di quelle bandiere aveva domandato anche a Peppino Strippoli, che signoreggiava nel suo supermercato del vino a Saronno, in cui si poteva incontrare,
tra gli altri, Folco Portinari, che in un articolo aveva definito il cerignolese “missionario di…vino”, descrivendo anche il migliaio di libri sulla civiltà del bere allineati in uno spazio del capannone.Un giorno, facendo due passi sotto il portico con un cronista, Chechele confidò il desiderio di dire grazie alla Madonnina che “protegge la città dal punto più altro del Duomo”. Gli fu suggerita l’idea del Premio Milano di giornalismo, e lui l’accettò con entusiasmo, dopo un estemporaneo abbozzo del progetto. Trascorsa una settimana, si mise mano allo statuto e alla stesura dell’elenco della giuria. Furono lo stesso Chechele, Alto e il cronista a scegliere Raffaele De Grada; i pittori Giuseppe Migneco e Ibrahim Kodra; Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”; il poeta e critico letterario del “Corriere della Sera” Alberico Sala; Paolo Mosca, direttore di “Play boy” e prima de “La Domenica del Corriere”; Ruggero Leonardi, redattore di “Oggi”; Giorgio Gabbi di “Panorama”; Mario Oriani, direttore di “Qui Touring”, i gastronomi Vincenzo Buonassisi e Edoardo Raspelli, che oggi conduce una trasmissione su Rete 4; Giuseppe Giacovazzo, pilota de “La Gazzetta del Mezzogiorno”….La prima edizione venne assegnata a Giovanni Valentini, che a 29 anni stava già sulla plancia di comando de “L’Europeo”.
Consegna del Premio a Gino Palumbo

La seconda a Gino Palumbo, che tra l’altro aveva fatto lievitare le copie vendute della “Gazzetta dello Sport”; la terza a Franco Di Bella, direttore del quotidiano di via Solferino, e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso giornale….Le riunioni della giuria erano interminabili: alle due di notte erano ancora in corso, mentre Chechele, accomodato discretamente in un angolo, seguiva le accese discussioni con aria rapita. Ognuno aveva il proprio candidato, e lo sosteneva a spada tratta. De Grada propugnava Maurizio Chierici per le sue inchieste sull’America del Sud; Mosca, Giulio Nascimbeni, che era tra l’altro il biografo di Montale; Sebastiano Grasso, anche lui del “Corsera”, Di Bella; Kodra Cavallari, che, corrispondente da Parigi, con alcuni articoli aveva fatto irritare Giscard d’Estaing all’Eliseo...Alberico Sala e Mario Oriani si limitavano ad appoggiare l’uno o l’altro, ma senza alzare i toni della voce. La decisione era molto difficile perché tutti i nominati avevano grandi meriti. Alle cerimonie di consegna partecipavano rappresentanti della carta stampata e della televisione, ma anche professionisti, artisti, editori.
Di Bella, Tognoli al quale Chechele consegna un ricordo

Per Di Bella e Cavallari (arrivato dalla Senna apposta per ritirare il Premio “ex aequo”) vennero anche la scrittrice Milena Milani, il sindaco Carlo Tognoli; Giovanni Testori (noto non solo per i suoi libri: “I segreti di Milano”, “Il ponte della Ghisolfa”, “La Gilda del Mac Mahon”…ma anche per la sua riservatezza)... Del premio si parlava molto, non solo sui mezzi d’informazione. E non erano pochi quelli che si offrivano come giurati, mettendo in imbarazzo chi doveva contenerne il numero. Poi Chechele aprì un altro ristorante dalle parti di piazza Piola; e un altro a Pugnochiuso, oggi gestito dal figlio Nino. Il secondo locale, “Puglia”, fu sede dell’omonimo Premio destinato ai pittori. Chechele, che nel giugno ’79 fu nominato cavaliere dal Presidente della Repubblica, ed ebbe tanti altri riconoscimenti, non c’è più da tempo. E non ci sono più neppure Nenella, regina tra i fornelli; Alto, Kodra, De Grada, Ronfani… Ma Milano non li ha dimenticati. Come non ha dimenticato Strippoli, che creò ben 15 ristoranti.