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martedì 24 maggio 2016

Il 10 giugno 1987 per la presentazione del libro di Emilio Tadini


“Minerva News” ringrazia l'Archivio fotografico Gestione Navigazione Laghi per l'autorizzazione concessa alla pubblicazione delle due foto




Piroscafo Concordia
Motore piroscafo Concordia 

Foto pubblicate per gentile concessione dell'Archivio fotografico Gestione Navigazione Laghi)


 
            

 Servizio di Franco Presicci - "Miglior Cronista 2002"

 

Lago di Como
La notte del 10 giugno 1987 pioggia e vento sembravano averci teso un’insidia, per guastare la festa. Quando salimmo a bordo del piroscafo Concordia diretti a Bellagio, il cielo era, sì, imbronciato, ma non al punto da far sospettare una violenza imminente. Così, in fila indiana, dal pontile numero 3 di piazza Cavour andammo a prendere posto nel salone, da dove potevamo vedere la nave che partiva, salutando con la sirena chi, non essendo della compagnia, rimaneva a terra.
Un’ora dopo l’acqua cominciò a cadere lentamente, bucando il pelo del lago e gocciolando sulle vetrate. Ma dopo pochi minuti venne giù a bariglioni, aizzata da Eolo che ruggiva. Il Concordia beccheggiava, ma avanzava spedito. I naviganti sapevano di poter stare tranquilli, e conversavano, gustavano l’aperitivo, stringevano mani, si scambiavano battute. Alcuni si dicevano contenti di potersi godere questa traversata, sognata e sempre rimandata. L’occasione era importante:
Da sx: O. Patani, R. De Grada, G. Ballo, E. Tadini
la presentazione del libro “La lunga notte” di Emilio Tadini, uno degli artisti più versatili del dopoguerra. Giovanna Silvestri, guida dell’ufficio stampa della casa editrice, la Rizzoli, aveva fatto le cose in grande, scegliendo quella imbarcazione storica, ispirata dal contenuto dell’opera, la cui trama si svolge appunto sul lago di Como. Un giornalista, di quelli che vanno sempre alla ricerca di uno “scoop”, piomba in una villa di Torno per intervistare un gerarca “polveroso e dannunziano” da tutti chiamato Comandante, e apprende che l’uomo è appena deceduto. Ma può parlarne la vedova, Sibilla, che lo fa, immaginandosi l’ultima ribalta, con toni enfatici e apologetici, mischiando realtà e inventiva. Per festeggiare Emilio Tadini e per discutere del suo libro avevano risposto all’appello Umberto Eco, Giorgio Bocca, il giallista Renato Oliveri (fra i tanti suoi testi “Il caso Kodra”, “Largo Richini”, “Maledetto ferragosto”, da cui venne tratto un film in parte girato nella questura di Milano con Ugo Tognazzi e Carlo Delle Piane), lo stilista Ottavio Missoni, Giulia Borgese… Alle 20 tutti a tavola, per una cena gustosa.
Tognazzi nella lavorazione del film di Olivieri
Gli oratori presero la parola al “dessert”, coinvolgendo gli invitati, fra i quali quattro o cinque giornalisti che il libro (poi ripubblicato da Einaudi) lo avevano già letto. Al termine qualcuno tentò di uscire ma fu respinto dalla burrasca; e si riunì al suo gruppo, impegnato negli elogi del Concordia, che, nato con il nome di “28 Ottobre” in omaggio alla marcia su Roma, venne ribattezzato il 25 luglio ’43, quando Vittorio Emanuele III liquidò il duce facendolo arrestare e affidò il governo al maresciallo Badoglio. Imbarcazione bellissima, veloce, snella, accogliente, decorazioni Liberty, lunghi divani di cuoio, tendine di velluto rosso nel prestigioso salone. Varata nel 1926, lunga 53 metri, larga 12, capienza fino a 900 passeggeri, mezzo cassero, motore a vapore a vista, che si poteva ammirare dalla balaustra; e molti vi si affacciarono, quando finalmente l’estro del tempo si placò, dopo un fulmine fragoroso come una bomba. Una signora alta, magra, capelli biondi, dotta, sui sessanta, straniera, dissertava sui libri di Francesco Ogliari
Ogliari con amici nel suo museo dei trasporti di Ranco
(nella foto il secondo da sinistra-docente universitario, esperto di trasporti e già presidente del Museo della Scienza e della Tecnica) e definiva il Concordia una casa galleggiante signorile. Ero d’accordo. Tra l’altro felice di non essere stato messo al tappeto dal mal di mare per le avversità meteorologiche, come mi era accaduto nel ’73 sul transatlantico Michelangelo di ritorno a Genova da Casablanca. “Mi propongo di visitare almeno l’esterno di Villa Pliniana a Torno – confidai all’interlocutrice -, che come lei sa ospitò il Bonaparte, Byron, Manzoni, Stendhal, Verdi, Bellini…: e offrì ad Antonio Fogazzaro l’ambientazione di ‘Malombra’ e a Mario Soldati quella della sua trasposizione cinematografica”. “Fu costruita nel 1573 – aggiunse lei - e divenne poi nota come dimora di fantasmi per un grave fatto di sangue di cui era stata teatro”. “E vorrei fare un salto nei luoghi in cui trascorse parte dell’infanzia e dell’adolescenza Liala”.  “Lo pseudonimo alla scrittrice, all’anagrafe Amalia Liana Negretti Odescalchi, lo suggerì Gabriele d’Annunzio, a cui si deve anche il nome della Rinascente…. Liala passò quegli anni tra Carate Lario, dov’era nata, e Urio, nella casa dei nonni, sul lago di Como”. E citò alcune sue opere, tra le quali proprio “Tempesta sul lago”.
Umberto Eco
Poi tacque, abbassò lo sguardo e dirottò la memoria su altri piroscafi contemporanei alla trama di Tadini: il Como; il Savoia, che il 28 maggio del ’27 a Villa Olmo prese a bordo il re, a Como per il centenario della morte del Volta, e il 25 luglio ’43 fu rinominato Patria; il Lecco, che, in servizio dal 1874, il 27 maggio del ’23 ricevette Umberto II diretto a una commemorazione manzoniana; il Lombardia, il Lario, il Plinio… Quanti! Tutti meravigliosi. Anche Roberto Serafin, redattore de “Il Corriere d’Informazione”, il quotidiano del pomeriggio di via Solferino, dove lavoravano anche Edoardo Raspelli, autorevole gastronomo, oggi pellegrino fra allevamenti zootecnici, colture agricole e arte culinaria per Rete4; e Mario Ligonzo, che dopo aver curato per anni la prima pagina del “Corriere del Giorno” di Taranto, nei primi anni Sessanta si era trasferito a Milano, chiudendo la sua galleria d’arte in via Mignogna. Serafin si occupava prevalentemente di libri e spettacoli, e riportò il discorso sul testo di Tadini, pittore, poeta, critico, scrittore., definito “narratore per immagini”, e da Umberto Eco scrittore che dipinge e pittore che scrive. Per Domenico Porzio “lo strepitoso ritratto del comandante che Tadini dipinge e anima con felici, epiche e grottesche cadenze cèliniane ci viene consegnato con una mano disincantata”. La
Un battello lascia il pontile
prosa di Porzio, tarantino come il poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri, che collaborava con il “Corriere della Sera” e con “Epoca“ e pubblicava con Mondadori, è elevata, arguta, smagliante, avvincente. Da qualche anno non c’è più, e non ci sono più neanche Tadini, deceduto nel 2002 a 75 anni nella sua casa di via Jommelli, a Milano; Eco, Missoni, Bocca, Ogliari, il cui museo europeo dei trasporti di Ranco, così ricco di testimonianze storiche (carrozze a uno, due cavalli, stazioni ricostruite su disegni d’epoca, locomotive a vapore, una funicolare, un “Gamba de legn”, binari, marmotte, sale d’aspetto…) è stato trasferito a Volandia, vicino a Malpensa.
Provai molta amarezza quando nel 2011 mi dissero che il Concordia spegneva il motore; e che quindi andava in archivio un pezzo di storia del Lario. Ma il 20 maggio 2016, data memorabile, il profilo slanciato, raffinato di questa perla del lago è ricomparso, fra applausi calorosi e prolungati. Durante la cerimonia solenne del varo, benedetta da monsignor Renato Pini, che ammira il piroscafo da quando era ragazzo, il direttore della Navigazione Laghi Salvatore Vitulano ha detto che “siamo riusciti a raggiungere un traguardo di cui andare fieri”. E il direttore della Gestione governativa laghi, Alessandro Acquafredda: “C’è l’antico che risplende unito alla tecnologia”. Già, il Concordia è tornato a brillare. Si riascolterà ancora il suo fischio alle partenze e agi arrivi. Per dare il benvenuto e l’arrivederci ai turisti ansiosi di godere il fascino del lago di Como. Lo vedremo attraccare al pontile di Argegno, paese-bomboniera di circa 700 abitanti, mentre ci accingiamo a salire per arrivare a Laino.

mercoledì 18 maggio 2016

Vito Arienti e le sue Edizioni del Solleone







LA STORIA DEL COSTUME

 

NEI TAROCCHI STORICI

 

 




Valorizzò talenti giovani e tradusse in mazzi le loro creazioni nella sua tipografia di Lissone.


Ridette vita a carte antiche come la “Corona Ferrea” e i vecchi mestieri di Milano di Ferdinando Gumppenberg, stampatore tedesco emigrato nel capoluogo lombardo nel 1809


                                                                                               





                                                                                        

                                                                                     

Il gioco geografico pubblicato da Vito Arienti nel 1975.


Franco Presicci


Era di Lissone. Un quarto d’ora di macchina da Milano. Lì aveva casa e bottega: una tipografia bene avviata. La casa, una villetta al centro del paese, sulla porta subito a destra dell’ingresso, aveva un foglio bianco con la scritta: “Teatro di Vito Arienti”. E in quel teatro lui custodiva circa 10mila tarocchi storici provenienti da molti Paesi, persino dalla Cina, e da diversi secoli. Ci volle quasi una notte per osservarne più meno trenta. Li prendeva con una delicatezza che si usa con un oggetto di vetro antico, e li spiegava con la pazienza e la competenza che tutti gli riconoscevano. “Queste vengono da Pechino, sono di bambù, hanno varcato la frontiera durante la diplomazia del Ping Pong; questi sono i “Tarocchi della Corona Ferrea”, del 1838, usciti dalla stamperia dei Giardini della Scala del bavarese Ferdinando Gumppenberg; questo è il Gioco del Cuccù (1846), che era in voga nelle valli bergamasche… Questo è uno dei due sopravvissuti al rogo nel settembre del 1725. E’ la “Geografia intrecciata nel gioco dei tarocchi”. Nel ‘700 si usava dare notizie di ogni tipo, anche filosofiche, sulle facciate delle carte. Questa con il numero 21 indica, come vedi, in Bologna un governo misto, mentre la gerarchia ecclesiastica ne rivendicava l’esclusiva’”. E allora? Allora si scatenò il quarantotto: l’arcivescovo Ruffo, imparentato con l’omonimo della Repubblica partenopea, ordinò che i mazzi venissero portati in piazza per essere bruciati, e che la disobbedienza fosse punita con il carcere (5 anni in Forte Urbano per i plebei, 3 per i patrizi). La tipografia venne chiusa; il tipografo perseguito; il canonico Montier, autore dell’opera, spedito in esilio, ma a quanto pare, avendo protettori in Vaticano, fece soltanto mezza strada.
Tarocco della Corona Ferrea
“Il mazzo della ‘Geografia’ lo ripubblicherò io e gradirei che fossi tu a fare la presentazione, rispolverando questa vicenda”. Parlava piano, sottovoce, Vito Arienti. E ogni tanto regalava un sorriso amabile. Lo conobbi nel luglio del ’72; avrà avuto una cinquantina d’anni. Alto, robusto, volto da Gino Cervi. Si alzava alle sei, leggeva le lettere che gli arrivavano da ogni parte del globo e andava in ufficio, dove rispondeva a collezionisti russi, giapponesi, americani che condividevano con lui un gusto quasi pagano per queste preziosità. Usava il termine “cartagiocofilia” mentre mi mostrava i “Tarocchi del Mantegna”; un mazzo con immagini caricaturali; “I tarocchi Visconti-Sforza”, Milano XV secolo, “realizzati da un artista la cui identità non è stata ancora individuata con certezza. Esistono elementi che ricondurrebbero a Bonifacio Bembo, ma non solo a lui. Che fosse destinato alla famiglia viscontea si ricava dalle insegne araldiche incise su alcune pezzi”.     E  poi: “Guarda che bello questo.    Ogni   volta   che   lo   guardo   mi  pare    di
Osvaldo Menegazzi
avvertire l’odore della polvere da sparo della Rivoluzione Francese”. Quando gli dissi che avevo bisogno di una sua fotografia per corredare l’articolo già atteso da Paolo Cavallina, che dopo aver condotto per anni la seguitissima trasmissione su Rai 2 “Chiamate Roma 3131”, aveva assunto la direzione de “Il Mezzogiorno”, quotidiano per l’Abruzzo confezionato a Roma, tirò fuori da una elegante scatola d’acciaio un mazzo disegnato dal pittore Domenico Balbi di Genova pubblicato nel '78 per l’Italsider: “Pubblica quattro o cinque di queste figure e l’impaginazione risulterà sicuramente migliore.
Hai a disposizione un’intera pagina”. Era fatto così Vito Arienti. Era considerato il maggiore collezionista di tarocchi storici d’Europa, aveva una cultura profonda in materia, faceva conferenze in ambienti elevati, era stato collaboratore della “Linea Grafica”, periodico autorevole del settore, ma era schivo alla pubblicità. Più volte, autorizzato dal pittore Filippo Alto e da Bruno Marzo, il primo responsabile culturale dell’Associazione regionale pugliesi (quando la sede era in piazza del Duomo) e il secondo presidente, ma mi pregò di soprassedere perchè aveva male a una gamba ed era costretto ad usare il bastone. Non voleva farsi vedere con quell’appoggio. “Quando avrò superato la difficoltà sarò lieto di venire. Adesso proprio no, ti prego. Sai che amo la Puglia e ho grande simpatia per i pugliesi”.Era di una cortesia disarmante. E generoso. Sensibile. Rispettoso. Cercò per anni gli stampi di un mazzo; venne a sapere che li possedeva un tipografo; intensificò la ricerca, e si trovò in un ospedale.
 Steve Erenberg, Stuart Kaplan e Osvaldo Menegazzi
“Non puoi immaginare la mia sofferenza quando fui di fronte a quel collega non più in grado di capire quello che dicevo”. Poi si accinse ad acquistare il mazzo con cui aveva giocato Gabriele d’Annunzio; ma gli chiesero una somma spropositata e fece marcia indietro. Decise allora di ripubblicare i classici, tra cui alcuni di quelli stampati dal Gumppenberg e di stimolare idee nei nuovi talenti, cominciando dal figlio architetto, che aveva un tratto graffiante. Ed ecco, quindi, le Edizioni del Solleone, che propose una produzione limitata e a prezzi molto bassi per regolare il mercato, ed ebbe un tale successo che, quando dal Giappone arrivò la richiesta di un quantitativo consistente, Arienti aveva solo qualche esemplare. Trascorrevo ore ad ascoltare Vito Arienti, nella sua tipografia, dove trovavo a volte Osvaldo Menegazzi, che ha creato bellissime carte elogiate da Stuart R. Kaplan, personaggio interessante, specialista mondiale della materia (di Osvaldo ricordo il “Tarot de Napoleon”, che per gli arcani maggiori si ispira alle imprese del Corso, ma anche i quadri surreali con le conchiglie che vagano tra le nuvole).
Massimo Alberini
E in quelle conversazioni apprendevo, per esempio, la storia del “mahjong”, nato in Cina forse nel XIX secolo; ammiravo un mazzo con scene de “I Promessi Sposi” realizzate dal Gonin; un altro con i vecchi mestieri di Milano, “Il Tarocchino lombardo”… Mi si apriva un mondo affascinante. “Sono esempi di “imagerie populaire”, testimonianze di costume, grafica, gusto pittorico…”.. Ferdinando Gumppenberg ritornava spesso nei suoi racconti.
Diceva: “Cominciò a ristampare vecchi giochi e valorizzò tanti artisti lombardi”. Proprio come stava facendo lui, riscuotendo  l’apprezzamento   di   Massimo  Alberini,   vero
Tarocchi di D. Balbi, di Genova
intenditore degli ambienti del circo e del collezionismo. Spuntò a un certo punto la curiosità sulle origini dell’uso “divinatorio” di ori e figure, e Arienti strinse il mento tra il pollice e l’indice e rispose: “Bah, c’è chi tira in ballo gli arabi, chi gli ebrei, chi i nomadi”. Stando a Boiteau d’Ambly, il cui volume “Les cartes à jouer e la cartomanzie” (Parigi 1852), ristampato a suo tempo dall’editore Forni di Bologna, la cartomanzia venne portata in Europa dagli zingari venuti dall’India. Per il Merlin, autore di “Origine des cartes à jouer” (Parigi 1869), nella storia degli arabi e degli ebrei le carte non erano previste nei mezzi di chiaroveggenza, dei quali pure parlano Peucer (1553) e Richelet (1732). Secondo altri, la pratica non ha radici antiche. Sarebbe stata inventata da un parrucchiere, un certo Alliette, che diventò benestante al tempo della Rivoluzione, stendendo un opuscolo sulla tecnica di “fare le carte” con un gioco detto di picchetto. Il barbitonsore anagrammò il proprio nome (Etteila) e fu imitato anche dalla Lenormant, confidente di Giuseppina Bonaparte. Pseudoindagini sul futuro a parte, le carte erano invise sia all’autorità politica sia agli ordini religiosi. Il 23 marzo 1376 il Consiglio della Repubblica di Firenze vietò il gioco delle carte (naibbe), comminando pene pesanti quanto quelle stabilite per il gioco d’azzardo. Nel 1473 San Bernardino da Siena tenne una predica a Bologna bollando le carte come la bibbia del diavolo. Vito Arienti non c’è più da anni. Ma mi capita di pensare alle sue dotte “lezioni” su questo pianeta, tra l’altro non immune dalla separazione fra ricchi e poveri: i primi utilizzavano carte dipinte su pergamena, cuoio o carta di lusso da veri artisti; mentre i secondi carte eseguite in qualche maniera.

mercoledì 11 maggio 2016

UN TEMPO SUL NAVIGLIO NAVIGAVANO I BARCONI



Portavano sabbia, ghiaia, generi alimentari,  i marmi di Candoglia per la Fabbrica del Duomo.

Da oltre un secolo è scomparso  anche “el Barchett de Boffalora”;  da quattro anni la Viscontea,  bella, elegante, salottino signorile 

 


Solo un poeta disse loro addio

 




Franco Presicci
 
Veduta del Naviglio Grande
Che io sappia, non hanno eretto un momento agli uomini che governarono i barconi sul Naviglio Grande.E non so se a qualcuno sia venuta in mente l’idea. A suo tempo a San Rocco di Quistello nel maggio ’74 hanno fatto onore alla prima Lega del contadino con una statua in bronzo eseguita dal grande scultore Giuseppe Gorni, che plasmava l’argilla del Po; a Massimo Visconti nel ’72 hanno immortalato l’ombrellaio; a Vigevano il calzolaio e da qualche altra parte lo spazzacamino. Ma i barcaioli, in milanese “battilocch”, che per secoli portarono a Milano ogni genere di merce, soprattutto il marmo di Candoglia prelevato a Tornavento per la Fabbrica del Duomo, sembra siano stati dimenticati. A ricordarli, attraverso la storia di uno di loro rimasto senza lavoro, è stato il regista Lamberto Caimi con il cortometraggio “Ona strada bagnada”, che nel 1999 vinse, tra gli altri, il Premio Studio Universal. Nel maggio del 2015, a mo’ di testimonianza, ne hanno rimesso in acqua un esemplare dopo averlo opportunamente restaurato.
Il Barcone
Facemmo in tempo ad incontrarne due, di “barchiroeu”. Salimmo sulla loro chiatta a un paio di chilometri dalla darsena, notando sulla chiglia la scritta “Aufo” (acronimo di “ad usum fabbricae opus”, quindi materiale esente da dazio, da allora usata per bollare chi mangia sulle spalle altrui). Era prossimo il 31 marzo del ’79, un sabato, giorno previsto per la cessazione dell’attività. Ma non fu quella, lunga 38 metri, larga 5, sigla 6L-6043, l’ultima ad approdare nel porto di Milano, dove il Naviglio Grande e il Pavese si congiungono. Nel brevissimo viaggio, e all’approdo, i nostri personaggi, che stavano uno a prua, uno a poppa, si mostrarono restìi alla conversazione. Riuscimmo a cavare appena i nomi, qualche parola di circostanza e la durata del loro lavoro giornaliero, dall’alba al calar del buio: quasi la stessa vita del cavallante, che nella cascina aveva cura delle stalle.
Il pittore Kodra saluta da un barcone

Nemmeno una supplica rivolta al patrono della categoria, San Giovanni Nepomuceno (in meneghino e per simpatia “San Gioann né pù né men”), al quale un simulacro è stata concesso, avrebbe avuto qualche risultato. Entrambi di media statura, bene in carne, un berretto in testa, all’attracco si scusarono avviandosi verso il ponte dello Scodellino. Erano davvero stanchi. Come non capirli, dopo tutta quella fatica? Altri barcaioli ci accolsero durante una Festa del Naviglio con la “troupe” di Telemontepenice e il pittore Ibrahim Kodra, che della Montmartre milanese subiva il fascino.Non si curavano dell’operatore che con l’occhio magico li riprendeva; non avevano il tempo né la voglia di alzare gli occhi verso la gente che assediando le bancarelle sull’alzaia o il “pont de preja”, li applaudiva. Dovevano badare a guidare il bestione, che non era impresa facile né agevole.
Vendemmiammo notizie dal pittore Guido Bertuzzi, che dipingeva i barconi osservandoli dal parapetto; conosceva tutti i “barchiroeu”, e molte storie, come quelle di Giovanni Re, detto “Paronett” per aver ereditato un lenzuolino di terra; e di Luigi Colombo, “Scarp-e ghett” per via delle ghette calzate la domenica dal nonno. Di quei lavoratori conosceva la vita e le sgobbate. Che durante i viaggi controcorrente aumentavano, nonostante il contributo della “rozza del naviglio”: cavalli vecchi e bolsi difesi in consiglio comunale da chi voleva metterli a riposo, riuscendoci dopo il 1918, facendoli sostituire con un piccolo trattore. Poi le chiatte finirono in deposito e stimolarono versi toccanti: “Adio navili beIl/ adio barcon/ amis che t’hee servii l’ingegn de l’omm”…Il barcone si fermava per sempre, dopo aver fatto avanti e indietro per secoli, con la pioggia, il sole o la “scighera” (la nebbia): “l’han soteraa senza sonà i campan”…. “Adio me car barchett del temp passaa”.

La Viscontea
Dalla seconda metà del XVIII secolo al 1913 su quelle acque navigò anche “el barchett de Boffalora” (altro nome ”de Bbiagrass”). Faceva il percorso da Milano a Magenta, portando contadini di Corsico, Gaggiano, Abbiategrasso, Castelletto, Magenta, ambulanti di ogni tipo,…e, a sentire Paolo Valera, giornalista e scrittore senza peli sulla lingua nato nel 1850, anche “una ciurma indisciplinata, sghignazzante, che metteva sossopra, rumoreggiava, canterellava, sciaramellava, sacramentava….”. Gente povera ma perbene, dunque, ma anche malfattori che a domanda rispondevano di essere diretti “a fa el monda del ris in Piemont”; mentre tenevano scritto in fronte l’appartenenza alla consorteria dei “locch”, i duri della malandra meneghina, che si sfamavano nella famigerata locanda di via dei Guast.
La cascina Guardia di Sopra vista dal Naviglio Grande
Il “barchett” partiva di buon mattino; e all’ora stabilita l’avvisatore andava sotto il Trofeo, monumento scomparso voluto da un vanaglorioso governatore spagnolo, urlando ” El barchett el vaaa!”, e gli interessati uscivano dalle osterie correndo per non perdere la traversata.Per sconfiggere la noia, su quella che veniva paragonata all’Arca di Noè si esibiva il “torototela”, una sorta di cantastorie dai versi zoppicanti, che alla fine del numero chiedeva “el sesin” (il soldo), mentre l’avvisatore passava con la “basletta”, un vassoio di legno, per riscuotere il prezzo del biglietto (43 centesimi per i viaggiatori e 5 per le merci). Poi la scena era tutta di “quel de la riffa”. Il “barchett” fu reso famoso dall’omonima commedia dell’apprezzatissimo autore del Teatro Milanese Cletto Arrighi, al secolo Carlo Righetti, presentata per la prima volta con successo nel 1870, avendo fra gli interpreti l’esordiente Edoardo Ferravilla, il più grande comico dei palcoscenici meneghini, tra l’altro maestro nel dosare la mimica e i silenzi. Per lui le luci della ribalta si spensero nel 1916.

Scorcio del Naviglio Grande
L'architetto Empio Malara
Oggi sul Naviglio Grande - che i milanesi, già durante i lavori battezzarono “Panperduto” per l’enorme quantità di denaro che assorbiva; tanto che insorsero e uccisero, gettandolo nel fosso, il podestà Beno de’ Gozzadini, colpevole di non aver osservato il programma di eliminare certe tasse preferendo finanziare il proseguimento dei lavori del canale - corrono barche, barchette, gommoni. Fino a qualche anno fa spiccava la Viscontea, voluta dIl pittore Kodra saluta da un barconeal noto e stimato architetto Empio Malara, che oltre ad aver dato alle stampe numerosi libri sui navigli, si batte per un loro uso più adeguato al nostro tempo e a quello futuro.
Sulla Viscontea, bella, comoda, elegante, un salottino signorile, facemmo un viaggio fino a Gaggiano in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Associazione Amici del Naviglio. Con noi c’era anche lo storico di Milano Guido Lopez, tra l’altro autore di “Navigliando”, di “Milano in mano”… Sollecitato dalle domande, Lopez descriveva le ville di delizia, le cascine, che dal naviglio prendevano l’acqua, le chiese, i castelli… che passavano davanti ai nostri occhi.
A fare gli onori di casa a Gaggiano fu Malara, qualche anno dopo mente della discesa da Locarno a Venezia di una decina di natanti su questa via liquida celebrata dal poeta salernitano Alfonso Gatto e da tanti altri, compresi i giornalisti Guiodo Vergani e Gaetano Afeltra. Il secondo, amalfitano innamorato di questi capolavori creati dall’uomo, scrisse: “La prima volta che venni a Milano, la proprietaria della pensione di via San Marco, quasi a scusarsi che dalla mia camera non si vedeva più il naviglio, mi disse: ‘Non sa com’era bello prima affacciarsi. Adesso si vede solo la strada. L’è brutt l’è brutt!’”. E nel volume “I Navigli” della Celip don Gaetanino annotò che queste vene d’acqua davano alla città un’atmosfera serena, di campagna. E’ qui che Carlo Castellaneta portava i forestieri, in via Magolfa o davanti alla chiesetta di San Cristoforo, “dove si dice che i nobili milanesi prima di partire per le crociate appendessero le chiavi delle cinture di castità”. E parlava loro dei barconi e dei “barchiroeu”, ai quali chissà se un giorno lo faranno, il monumento.

mercoledì 4 maggio 2016

La Stramilano, una giornata di gioia e di colori




CINQUANTAMILA NELLA CITTA’

LIBERATA DALLE CILINDRATE

Al centro l'assessore Valentini e il sindaco Tognoli






Giovani, adulti a piedi, in bici, su velocipedi su pattini, su skateboard. Personaggi stravaganti, il pittore che dipinge correndo, l’uomo con la scimmia sulle spalle. Partenza da piazza Duomo invasa dai pettorali
arrivo all’Arena fra boati di applausi.

                                                        A sinistra della foto Franco Presicci                                                                            

                                                                             


 
Franco Presicci


Della Stramilano, giorno di festa, di esultanza, di sport, custodisco tantissimi ricordi. Un giorno in cui una folla immensa conquista la città e se la gode. Non importa il tempo che fa. Sole o pioggia o vento, in cinquantamila (e più se si contano gli infiltrati) scattano da piazza del Duomo diretti all’Arena. Vecchi, giovani, donne, maschi, ragazzi, bambini portati a cavalcioni sulle spalle o in carrozzina. C’è chi non va a piedi ma su un velocipede; chi sul monopattino o sullo “skateboard”; chi su una comune “due ruote” con un muggito per campanello; chi addobbato in modo eccentrico, come quel cinquantenne con scimmia sul capo vestito da venditore d’acqua di Marrakesh; chi avvolto in una bandiera tricolore o nel vessillo della squadra del cuore; e chi in un lenzuolo a mo’ di stendardo con tutte le insegne collezionate negli anni. Un tale strimpella una chitarra; altri fanno fiorire ombrelli rossi o verdi o gialli, decorati, istoriati; altri ancora lasciano liberi grappoli di palloncini per mandare lassù un segnale del tripudio. Un marcantonio con la capigliatura cespugliosa, una camicia a quadretti aperta su una siepe, issa un cartello, con la scritta : “Stramilano, sei la mia vita”; seguito dal suo contrario, basso, sottile, capo spelacchiato, che invece, tra le braccia alzate come aste, regge una striscia di stoffa con una dichiarazione d’amore per la “splendida Maria”
Il palco della Stramilano
Le ricordo così le Stramilano che ho frequentato per 17 anni da cronista del quotidiano “Il Giorno”. Ero mattiniero, e già alle 7 del mattino acquartierato in piazza del Duomo per vedere come montava la marea. Poi si presentavano Michele Mesto (oggi presidente della società che organizza la maratona), Francesco Alzati e Gianluca Martinelli (all’epoca pilota dinamico ed entusiasta). E anche Attilio Monetti, lo “speaker” che conosce a fondo la storia delle corse e la sa raccontare con toni e cadenze da collaudato telecronista. Dal palco improvvisato in corso Vittorio Emanuele, ai piedi della Cattedrale, sciorinava date, primati, personaggi; intervistava i giornalisti, le autorità; inneggiava alla grande manifestazione di primavera, mentre si accendeva il microfono di Telelombardia e l’obiettivo ronzando riprendeva quella tavolozza che andava infoltendosi, fremendo. Gli spettatori, costretti oltre le transenne per il timore che debordassero, applaudivano, urlavano scatenati, infiammando ancora di più l’atmosfera. Stando sul podio, con gli assessori Valentini, Malena, Ascani, con la madrina (un anno Isabella Rossellini; un altro Maria Teresa Ruta…), io osservavo le facce conosciute: Cesare Isabelli, che aveva partecipato anche alla maratona di New York: l’alpino ottantenne con la penna sul cappello e i calzoni corti; l’anziano con il volto rubato a Serge Reggiani e una sorta di clamide greca indosso come un figurante di Cinecittà; e quell’altro con il parrucchino biondastro che esibiva con sussiego un pannello con le medaglie che aveva vinto nelle sue sgambate. il pittore con tela e colori pronto a dipingere galoppando il momento più significativo alla maniera futurista.
Poi passava Samuele Jannuzzi, di Barletta, che fece la sua ultima maratona a 96 anni, non per l’età ma per decisione della parca con la falce sempre in pugno. A dare l’annuncio furono i brandelli di un manifesto listato a lutto agitati dal vento sul muro esterno del palazzo in cui abitava, in viale Suzzani. Povero Samuele, era nato correndo. Impiegato alle Poste, ogni giorno trattava più del doppio della corrispondenza regolamentare; tanto che per accertare la serietà del suo lavoro due ispettori si appostarono a due passi da lui e alla fine lo onorarono con il titolo, ufficioso, di Speedy Gonzalez. Al mattino si alzava alle sei, metteva il caffelatte sul fornello, filava dal giornalaio e rientrava appena in tempo per spegnere il fuoco. Aveva fatto quasi tutte le Stramilano, sin da quando, nel ’70, la partenza era fissata a mezzanotte in viale Zara. Una settimana prima della maratona veniva al giornale e mi illustrava i suoi allenamenti quotidiani, che spesso si spingevano fino a Monza. L’ultima volta nel ’94. L’anno successivo il mio posto lo trovò vuoto; e il capocronista Giulio Giuzzi mi chiamò a casa per raccomandarmelo. Il giorno dopo il veterano, piccolo di statura, magro, passo spedito, accento barlettano marcato, ricambiò con una delle coppe da lui vinte nella sua lunga carriera sportiva. Il solito maligno vociferava che il pugliese “accorciava” il percorso, ma testimonianze inoppugnabili lo smentivano: per “don” Samuele, come lo chiamavo io, la maratona era un rito sacro e mai l’avrebbe tradita. E poi, lo avevo seguito con la macchina del giornale guidata da autisti esperti e curiosi: Gusmaroli o Ricciardi o Gramegna…
Michele Mesto, presidente da 4 anni della Stramilano
Grande, straordinaria, emozionante Stramilano. La fiumana non rispettava mai l’ora prevista per la partenza. Cominciava a fremere già un quarto d’ora prima, esortata dalle voci che scoppiavano dalle sponde. Monetti invitava a contenersi, ma i più febbrili spingevano, tentavano di rompere l’argine, che mentre stava per cedere si ricompattava. Ma poi ogni resistenza veniva sopraffatta e i bersaglieri davano fiato alle trombe. La valanga invadeva piazza San Babila; corso Venezia…. Al punto di ristoro in viale Tebaldi si frastagliava: molti proseguivano; altri facevano sosta davanti al banco chilometrico pieno di mele della Valtellina, yogurt, latte, bibite, panini, brioches, caramelle…Michele Mesto mi consegnava l’elenco e il “Giorno” lo pubblicava.
Amata Stramilano. Quante pagine le ho dedicato. Migliaia di righe apparse in prima, in cronaca, con foto spettacolari. Aspettavo quella domenica con ansia. Per nessun motivo l’avrei persa. Accompagnato da uno dei fotografi del giornale: Antonio Mantegazza o Gaetano Montingelli, che era di Cerignola, o Gianni D’Anna o Giovani Dell’Abate, di Tricase. Tutti bravissimi, sempre puntali, pronti a cogliere i particolari più significativi, i personaggi originali, le situazioni divertenti. Un “clic” sorprese un gruppo di giovani, che, arrivato in un furgone in via Manzoni, si allacciò il simbolo della maratona… e gambe in spalle!
La Stramilano - dicevano i patititi – oltre a far bene alla salute ti trasforma, ti face sentire più leggero, staccato dai pensieri della vita quotidiana, trionfatore in una città non assediata dalle auto, orgoglioso di quel pettorale da conservare a testimonianza di una ricorrenza inebriante. Qualche giorno prima, un anno, seduto a un tavolo del bar di piazza Cavour, di fianco alla libreria di Renzo Cortina, con Al Albano, Ottavio Missoni, che aveva concepito il pettorale, e sua moglie, chiesi allo stilista se fosse intenzionato a tuffarsi nella “Kermesse”. Sorrise senza fare promesse. Come il cantante di Cellino San Marco, era cordiale, simpatico, comunicativo, scherzoso. Un collega giurò di averlo visto, tra i cinquantamila.
Le rivedo così le mie Stramilano. E mi capita di ricordare il venditore d’acqua di Marrakesh, che morì senza avere vicino un amico, un parente, ma soltanto il primate, che lo vegliò per cinque giorni.
Provo nostalgia e gratitudine per la Stramilano, che ha dato anche a me qualche medaglia: nell’85, con la Rank Xerox e il Comune meneghino un Premio in monete d’argento coniate in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles (mi fu consegnato al Circolo della Stampa dall’assessore Valentini, presenti il campione olimpionico Alberto Cova e altri assi). E nel 2000 l’inserimento nel libro “Stramilano in cento storie” delle mie esperienze tra quelle di Gelindo Bordin, Mike Bongiorno, Camillo Onesti, dello stesso Cova….Mi scuso per la vanità, ma è colpa della Stramilano.