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mercoledì 26 ottobre 2016

Incontro con Giuliano Folcia







TRASFORMAVA IN OPERE D’ARTE

I TRONCHI DEGLI ALBERI SECCHI




Ha smesso perché le sue sculture venivano sfregiate o trafugate.

Scomparve anche un San Francesco che tira Gesù giù dalla croce.

La Zona 9 lo ha insignito dello “Zonino d’oro”; e lui lo dice con orgoglio.





Franco Presicci


Nell’aprile del 2005 un giornale scrisse che Milano doveva prendere esempio da Lugano, “dove le piante morte non le tagliano, ma le scolpiscono”. E’ quello che stava facendo Giuliano Folcia, oggi ottantasettenne, in quell’oasi di verde che è il Parco Nord. Ogni santo giorno lo raggiungeva in bicicletta e trasformava in un cane, in uno scoiattolo, in una tartaruga, in una figura umana i tronchi mozzati degli alberi stroncati dalla malattia.

Giuliano Folcia
Nato a Cinisello Balsamo e subito trapiantato a Milano, dal ’64 Folcia sta di casa in via Monterotondo, al quarto piano del civico 8, nel quartiere Niguarda, a due passi dalla chiesa di San Martino, del XV secolo, e dalla cascina, sede decentrata del Comune e dei “ghisa”. Al Parco ci va ancora, non più sulla “due ruote”, ma in tram: e osserva il paesaggio, seduto sempre sulla stessa panchina, quella piazzata subito dopo l’ingresso da Cinisello . “E penso al mio alpino, al quale di notte qualcuno staccò la penna del cappello e all’uccellino segato e trafugato”. Stessa sorte toccata allo gnomo con il piffero seduto su un fungo; e al San Francesco che tira giù Gesù dalla croce… “Io volevo abbellire il Parco, e avevo ottenuto l’autorizzazione ad adoperare scalpello e mazzuolo. La gente apprezzava i miei lavori, tanto che li fotografava e mi regalava la copia. Guardi qua le immagini dello scoiattolo, dell’elfo che suona la fisarmonica, della fontanella, della conchiglia. dell’arrotino… Con l’età, artisticamente ho acquisito maggiore manualità…Il mondo è cambiato. E’ cambiata in tutti i sensi anche la nostra zona. Tra l’altro si è riempita di case. Una volta c’erano gli orti ed era meno popolata; si assaporava un’aria da borgo antico, con il fabbro, l’arrotino, il falegname. Tante cose sono venute a mancare a Milano, voci, spazi, figure…Non la riconosco, la mia città”. Parla a raffica, si alza, gesticola, si commuove. Ne ha da dire, di cose, quest’uomo alto, dalla bella faccia tonda, dal sorriso dolce.

L’dea di creare al Parco Nord una sorta di galleria d’arte tra i viali e sull’erba gli venne ammirando la natura. “Già da ragazzo, alla scuola elementare, nel disegno mi distinguevo”. Il padre lo mandò a Brera per un corso, ma lo frequentò per pochi mesi. “Sa, c’era la guerra, con i bombardamenti… massacrarono la Scala, la Galleria, piazza San Fedele, il quartiere di Greco…; e c’era la miseria. Così dovetti andare a lavorare. Imparai a fare il tappezziere, l’imbianchino, il verniciatore e a rivestire le pareti di carte da parati”. Verso i 40 anni cominciò a dipingere. “Facevo mostre, partecipavo a collettive, vincevo premi; ma i compratori latitavano. Poi presi a cimentarmi con la scultura. Realizzai un paio di scarponcini, piacquero a uno che se ne intendeva e mi sentii stimolato a continuare”.

Mentre parla mi indica pregevoli esemplari collocati su un mobile in cucina: eseguiti in una stanzetta, occupata dal bancone, da sgorbia, pettinella, subbia, gradina… E mi mostra i riconoscimenti ricevuti: uno dei tanti lo “Zonino d’oro” assegnatogli dal consiglio di Zona 9 come “scultore del Parco Nord”. Nel 2003 a Villa Litta ha vinto il primo premio per le opere in legno. “Usavo il tiglio, soprattutto il cirmolo, che non hanno venature, e qualche volta anche il ciliegio e il nocciolo. Acquistavo le travi da un falegname di Civenna, sul lago di Como, le facevo tagliare e le depositavo in cantina. Sono cresciuto nell’arte. Il medico mi ha detto che mi fanno più bene le mie sculture che le medicine. Nel farle, provo un’emozione forte, difficile da descrivere. Più forte quella che provavo al Parco Nord. Era come se, incidendo quei tronchi secchi, dessi loro un’altra vita. Non ho titoli di studio, non ho potuto conseguirne, ma ho sensibilità”, aggiunge Giuliano, il “nonno del Parco Nord”.

Folcia alle prese con un volto
E’ cordiale, avvincente, orgoglioso dei suoi manufatti, che comprendono le statuine per il presepe. “E ama la pesca”, interviene Marilena, la moglie, che lo incoraggia, colma i vuoti che lui lascia mentre si racconta”. “Marilena è il mio amore da 47 anni – esplode lui accarezzandola – Litighiamo, ma il litigio rafforza il sentimento. Marilena mi ispira, condivide la mia passione. Un’altra moglie non avrebbe permesso che una stanza venisse adibita a laboratorio”. E’ Marilena a tirare fuori del cassetto le foto che ritraggono il marito al Parco mentre cambia i connotati a ciò che resta di un albero rigoglioso. “La nostra vita si snoda all’ombra degli alberi”, commenta Giuliano. E io penso alla poesia di Wang Ya-P’ing: “Un albero secco/ fuori della mia finestra/ solitario/ leva nel cielo freddo/ i suoi rami bruni…Ogni giorno quell’albero/ mi dà pensieri di gioia: / da quei rami secchi/ indovino il verde a venire”. L’albero è un simbolo, un organismo che si sviluppa, un monumento; ha una sua personalità. Mi affascinano l’ulivo e il fico. Il primo nell’”Odissea” è utilizzato per il talamo nuziale di Ulisse; il secondo appartiene a una famiglia numerosa; è di origini remote, robusto, resistente, attecchisce anche nei terreni più avari; ai suoi piedi si rintanarono Adamo ed Eva dopo il peccato. Lo vedo, il fico, sui bordi di qualche viale, al Parco, con le sue palle da albero di Natale, quando è tempo.

L'alpino sotto la neve
Anche a Giuliano Folcia piace il fico. Ce n’era uno in un cortile di corso Garibaldi, all’angolo con via Moscova. E’ finito nell’archivio della memoria. Come l’antica via dei Guast (oggi via Anfiteatro), inondata dagli odori delle osterie e formicolante di carbonai, straccivendoli, imbianchini... “Accanto alla mia porta, c’era una trattoria che faceva il castagnaccio. Da ragazzo andavo a venderlo all’Arena, dove giocava anche l’Ambrosiana. Nel 1894 e nel 1906 in quell’”anfiteatro” si esibì il Buffalo Bill’s Wilde West, con William Frederick Cody che “eseguiva volteggi da fare invidia a un clown”, a sentire Emilio Salgari.

Dal tronco secco l'alpino
“Adesso sono al capolinea”. “Al capolinea il tram riprende la sua corsa”. “Sì, ma io non sono il tranvai. Mi hanno messo il ‘pacemaker’ e le gambe mi danno problemi…”. E’ anche molto simpatico, il “nonno del Parco Nord”, circondato dall’affetto di centinaia di persone, soprattutto dei bambini che quando lo vedono smettono di dar pedate al pallone per parlargli, chiedergli dov’è finito lo gnomo con il piffero o quando riprenderà a tirar fuori dei tronchi le sue magie. Qualcuno lo prega di vendergli una tartaruga o un riccio, una lumaca; ma lui non gradisce. Qualche volta cede all’insistenza, spinto dai languori della sua pensione. E’ un uomo buono, spassoso, schietto. “Vedo tanta tristezza in giro, e ne soffro. So che la vita non è tutta rose e viole, ma un po’ di serenità non guasterebbe”. Tornerà a scolpire al Parco Nord, magari in una giornata di sole? “Non credo. E poi, ripeto, sono al capolinea”. Ho l’impressione che lo dica per scaramanzia.




mercoledì 19 ottobre 2016

Il ceramista Giuseppe Rossicone a Milano dal ’53



NELLA SUA BOTTEGA DI VIA CHIOSSETTO

SI SONO ALTERNATI I MAGGIORI ARTISTI


Ha allestito mostre in tante città in Italia e all’estero

ottenendo riconoscimenti ovunque.

 

 

 

Le sue opere a quattro mani,

tra cui i totem e il paesaggi di

Kodra

e i nudi di Cantatore, sono

molto apprezzati dai critici e

dai collezionisti.

 

 

 Un percorso lungo e luminoso.













Franco Presicci

Nel dialetto milanese antico “ciussett” indica una contrada brutta, stretta e storta. Ma la via che da quella voce prende il nome è, sì, stretta, ma non brutta e nemmeno sbilenca. E, se non fosse percorsa dalle auto che dalla Visconti di Modrone corrono verso il Palazzo di Giustizia, sarebbe anche tranquilla e silenziosa.
Giuseppe Rossicone e Arnaldo Pomodoro.
Anche per questo forse, nel ’53, appena approdato a Milano, Giuseppe Rossicone la scelse per la sua bottega, che dal 2011, sindaco Letizia Moratti, è stata inserita fra quelle storiche. Si trova in una sorta di scantinato, con ampie finestre e scaffali che reggono a stento il peso di multipli, prove d’autore, sculture, molti frutto di un’intensa attività svolta a più mani in questa fucina, in cui si sono alternati i più grandi esponenti dell’arte contemporanea: fra gli altri, Michele Cascella e Bruno Cassinari; Floriano Bodini e Virgilio Guidi, Arnaldo Pomodoro, Hsiao-chin, Gianni Dova, Morishita Keizo, Trento Longaretti, Umberto Mastroianni, Franco Gentilini, Salvatore Fiume, Remo Brindisi, il pittore che nel ’70 a Lido di Spina fondò il “Museo Alternativo”, con una raccolta di capolavori del Novecento.

Rossicone al lavoro.
Nel seminterrato bisogna muoversi con cautela, perché i vari pezzi sono collocati anche sulle sedie, sul divano, su un paio di panche, persino sul pavimento soprattutto quelle nate dalla fantasia di Rossicone: lampade-forme, faraglioni in azzurro ferrigno (così definito proprio da Brindisi), il colore “che fa parte di me - confida l’autore - che mi aiuta a comunicare le mie emozioni”; il colore dei suoi sogni da quando, ragazzo, a scuola saltava gli intervalli per seguire l’estro.                                         Persona generosa, serena, ospitale, nota non soltanto nell’ambito nazionale, l’artista vanta un percorso di tutto rispetto. Nato a Scanno, in Abruzzo, nel febbraio del ’33, nel ’60 vinse due volte consecutive il premio per la ceramica di Gualdo Tadino. Al pubblico lombardo si presentò nel ’61 con una personale alla Villa Reale di Monza, ottenendo un notevole riconoscimento critico. Da allora giornali e riviste gli riservano ampio spazio, mentre lui continua a fare esposizioni molto apprezzate in gallerie e sedi culturali; e a ricevere premi prestigiosi.
Giuseppe Rossicone in una sua mostra.
Lo conobbi nel anni ’70, quando Paolo Cavallina, giornalista popolare per la sua trasmissione radiofonica “Chiamate Roma 31-31”, nominato direttore del quotidiano “Il Mezzogiorno”, mi telefonò per chiedermi di scrivere sugli abruzzesi che operavano nella città del Porta. Giuliano Adonai, un bravissimo pittore veneto che aveva sostituito Alessandro Cutolo sulla pancia della rivista “Historia” della Del Duca, mi parlò di Rossicone con tale entusiasmo da indurmi a fargli visita. Lo sorpresi al tornio a pedale a modellare un vaso, e si scusò di non potermi stringere la mano inzaccherata d’argilla. “Ti prego di avere pazienza: non posso lasciare il lavoro a metà”. Avevo tempo, e osservavo piatti di Terruso, Schifano, Gonzaga…, appena usciti dal forno e allineati su un ampio tavolo addossato alla parete. “Arte antica, quella della ceramica. Le origini di questa lavorazione si fanno risalire al 6.500 avanti Cristo…”, diceva Rossicone, tenendo sempre lo sguardo fisso al recipiente che si lasciava plasmare dalle sue mani abili e sottili come quelle di un pianista. “In Asia Minore in tempi lontanissimi i manufatti venivano cotti in fuochi coperti di terra e letame…”. Parlava sottovoce, calibrando le parole.
Rossicone al tornio.
Al termine della “pedalata”, mi mostrò alcune sue sculture, una a forma di mantice di fisarmonica, un’altra ritmata da segni e solchi, con i bordi frastagliati, pronti per la cottura, un’altra ancora con un volto di donna schizzato sulla superficie. Immaginai che l’autore traesse suggerimenti dalle pietre dei muri a secco che, a guardarci bene, hanno fattezze umane o animali. E’ rimasto infatti fortemente legato al suo paese e a quelle sagome, che sono monumenti naturali. Deve essere una gioia per lui manipolare l’argilla, così docile “all’intenzion dell’arte”, accarezzarla, lisciarla. L’ho visto impegnato, Rossicone, non solo il primo giorno; e l’ho ammirato mentre dalla terra ricavava la foggia e sulla stessa faceva poi vibrare il colore. Ci mette l’anima, nella sua fatica. Ancora oggi, che ha superato gli ottanta, conservando la sua serenità, il suo ottimismo.
Provo sempre commozione quando varco la soglia della sua bottega. Anche perché ogni volta in questo opificio rivedo i grandi artisti con i quali Rossicone ha collaborato: oltre a quelli già citati, Ernesto Treccani, sostenuto e severo (ricordo il suo volume “Arte per amore” e i suoi ritratti di mondine); Ibrahim Kodra, socievole, spassoso e nottambulo; Filippo Alto, il vichingo sereno, arguto e spiritoso che dipinse con ardore la sua Puglia e la sua città (Bari), e non solo; Domenico Purificato, gentile e disponibile, che intervistai a Brera, accompagnandolo poi fino alla sua abitazione in via San Marco… Oggi non ci sono più.

Scultura di Rossicone.
Ma io scrivo ancora di Attilio Alfieri, generoso, polemico, scorbutico, che aveva lo studio in via Pantano, a due passi dalla Torre Velasca. Non dimentico le sue impennate di fronte alle piastre ispirategli dai vizi capitali, dove il rosso non era vivo come quello dei meloni ammonticchiati sui carretti del suo paese: Loreto. Per colpa del suo carattere per un lungo periodo Attilio si era inimicato i critici, che però non potevano fare a meno di celebrare la sua pittura. Stempiato, sguardo penetrante, basso, la pipa quasi sempre spenta tra le labbra, ritraeva nature morte, volti di donna... Arrivato a Milano nel ’25, già negli anni 30 si distingueva per i suoi bozzetti per i manifesti della Fiera campionaria. Per lui Giuseppe Rossicone era (e lo è per tantissimi altri) un ceramista incomparabile. Per Carlo Franza, critico attento e intransigente, solo “Rossicone poteva dare vita a un laboratorio, o meglio ad un’officina della ceramica a Milano…fin dagli anni storici del dopoguerra, ovvero negli anni in cui Milano era tutta un fermento, quella Milano della Grande Brera, come la significò Franco Russoli, che per tutti gli artisti d’Italia e del mondo diventava un mito da vivere intensamente. Da quegli anni storici Rossicone ha dato vita a un centro singolarissimo…che si pone come uno dei punti-chiave della ceramica artistica contemporanea”.
Treccani e Rossicone in via Chiossetto.
Rossicone non si lascia incantare dagli elogi. Ha il culto del lavoro, la passione per la ceramica, arte in cui, ribadisco, eccelle. Non l’ho mai visto esaltarsi davanti a una sua scultura. Dirotta l’attenzione sui totem di Kodra, sulle Venezie e sulle pastorali di Brindisi, su un nudo di Domenico Cantatore, pugliese di Ruvo di Puglia, che sono tra le opere a quattro mani esposte in personali e collettive, e che fanno della fucina di via Chiossetto una ricca galleria, che comprende multipli di Mario Botta, il grande architetto elvetico; di Franz Borghese; di Sandro Chia..., che per il critico Domenico Cara sono “testimonianze sicure, luminose” elaborate da Giuseppe Rossicone, definito incomparabile ceramista, su modelli creativi dei maestri indicati.
Una  storia lunga e onorevole, dunque, quella dell’esimio abruzzese, che ha saputo sposare la pittura con la ceramica: un binomio, un connubio, una dialettica felici. Un esempio, un valore, come ripeteva un altro indimenticabile abruzzese: Fulvio Nardis, restauratore di Palazzo Clerici, a Milano. Grande Nardis, amante del pesce al cartoccio, che gustava sempre nello stesso ristorante di Foro Bonaparte, e sempre in compagnia degli amici. Acquistò un castello a Ocre, sognando di potervi ospitare un concerto di Massimo Bogianckino del Teatro alla Scala, già direttore artistico a Santa Cecilia e al Festival di Spoleto. Non fece in tempo.