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mercoledì 30 novembre 2016

Il grande mercante d’arte Guido Le Noci





Guido Le Noci

NELLE SUE GALLERIE ACCOLSE

LE AVANGUARDIE PIU’ ARDITE


Figlio di un eccellente scalpellino della Valle d’Itria, fu amico di Paolo Grassi, Pierre Restany, Dino Buzzati, Raffaele Carrieri e di tantissime altre personalità.

 

 

Pubblicò testi pregevoli su Quasimodo, Montale, Apollinaire e “Martina Franca”di Cesare Brandi, ancora oggi richiesto.




                                   

                                                      
 
 Servizio di



 FRANCO PRESICCI

C’era una volta in via Brera, a Milano, la Galleria d’arte Apollinaire.

Apparteneva a Guido Le Noci, pugliese tenace, geniale, dalla storia lunga e luminosa, dalle scelte ardite, dalla capacità di percorrere strade insidiose, di affrontare le novità senza timore di imbattersi in una tormenta, a suo modo un poeta impegnato non con la parola scritta ma con l’azione.

Pierre Restany e il pittore Elio Santarella
Le Noci accolse, sostenne e diffuse in Italia e in Europa le correnti d’avanguardia anche le più estreme. Tra l’altro, a detta di Pierre Restany, padre del Nouveau Realisme, fu “l’annunciatore milanese e il maestro delle cerimonie del X anniversario” del movimento, che aveva abbracciato con entusiasmo e convinzione. Scopritore di talenti, favorì la palingenesi di artisti dimenticati. Oggi chi, venendo da via Verdi diretto all’Accademia, passa davanti al civico 4, che contrassegnava il tempio di Le Noci, al ricordo è colto da un pizzico di nostalgia. Le Noci era di Martina Franca, città dalle case bianco-latte. Data di nascita 1904, figlio di uno dei più ispirati scalpellini del luogo, ben presto avvertì la propria inclinazione e la consapevolezza di poterla realizzare espatriando, pronto ad affrontare difficoltà, sacrifici, incomprensioni.Il 19 marzo del ’25 scese dal treno alla stazione Centrale, grande ventre metallico che incute timore nei nuovi arrivati; uscì in piazza Duca d’Aosta pensando al paese lasciatosi alle spalle, al sole che in ogni stagione lo benedice. Milano ha il cuore in mano, non emargina, non discrimina, non respinge chi ha buone doti e volontà; e Guido ne aveva davvero tante. Conosceva l’arte dell’approccio, e seppe accostarsi al mondo che sognava. Uno dei suoi primi contatti, la Galleria Pesaro, che prese a frequentare assiduamente. Conobbe Guido Tallone e la sua progenie; Oronzo Celiberti, appassionato di filosofia che gli presentò i comaschi Terragni, Figini, Pollini e altri. Lo attiravano le avanguardie; e in via Manzoni 25 non tardò ad aprire una sede per proporvi disegni di Modigliani, dipinti di De Chirico, De Pisis, Savinio, che l’amico Raffaele Carrieri, poeta e critico d’arte (scriveva su “Epoca” e sul “Corriere della Sera”), originario di Taranto, gli presenterà negli anni 30, fornendogli un’occasione d’oro, dato che Le Noci nutriva per le opere dell’artista, fratello di De Chirico, un’autentica passione.
Già due anni dopo il suo approdo in Lombardia, il grande martinese stilava articoli di critica per “La Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano barese; e lo faceva anche per mantenere saldi i legami con la sua terra. Intanto vendeva i primi disegni. Nel ’43 il salto, inaugurando a Como la Borromini, la sua prima galleria, in cui espone Atanasio Soldati, Giacomo Balla, Bruno Munari… Poi il primo viaggio in auto a Parigi, con due amici. Nel ’50 la Borromini spense le luci. Nel ’53 altro viaggio nella capitale francese, dove incontrò Pierre Restany. Il 17 dicembre del ’54 battezzò in via Brera, a Milano, la Galleria Apollinaire con opere di Modigliani, De Chirico, Morandi, Savinio, Soldati, Borra, Cagli, Campigli, Capogrossi, Carrà Casorati, Meloni, Migneco, Severini, Sironi, Tosi...                                   


Elio Greco con Le Noci
Nel gennaio del ’57 vi espose “Dodici composizioni monocrome” di Klein e disegni e tempere
Le Noci e Christo
di Fautrier per la prima volta nel nostro Paese. Yves Klein tornò all’Apollinaire nel novembre del ’61 per mostrare sculture, bassorilievi di spugne oro, pitture di fuoco... Il 29 novembre del ’70 “Ultima Cena” del Nouveau Realisme. Memorabili anche le esposizioni di Dorazio, Peter Bruning, con presentazione di Restany, Hans Hartung, Fontana, Licini, Mimmo Rotella, Cèsar…; e nel ’66 quella con le sculture di Jean Fautrier. Nel maggio dello stesso anno toccò a Elio Marchegiani. Dal 28 ottobre al 13 novembre a “Manifesto bianco” di Lucio Fontana, in quattro lingue;e poi a Enrico Baj, con poesie visive di Emilio Isgrò…Un’attività intensa, qui solo sfiorata.

Nel 1980 l’”Apollinaire” cessò di vivere. E Dino Buzzati su “Il Corriere d’Informazione”, quotidiano del pomeriggio di via Solferino, pubblicò un necrologio. Il 2 luglio dell’83 scomparirà quasi novantenne Guido Le Noci, il grande mercante d’arte che fu anche raffinato editore di volumi su Montale e Quasimodo, e sullo stesso Apollinaire. Suo lo splendido, prezioso libro del ’68 su Martina Franca, testo di Cesare Brandi e centinaia di meravigliose immagini di Ciro De Vincentis (interni e facciate di chiese, chiostri, portali, palazzi, campanili, volte, “’nchiostre”, stemmi, torri, scene di vita quotidiana…). Brandi qualche anno prima aveva pubblicato con Laterza “Pellegrino di Puglia” e Guido riuscì a riportarlo tra le nostre bellezze paesaggistiche e architettoniche. Grande Guido. Aveva anche in mente di creare un Premio “Apollinaire-Sud”, riservato alla Puglia. Una vita ricca di progetti realizzati e di successi, di conquiste, di atti di coraggio, quella di Guido Lenoci.

Lucio Fontana e Guido Le Noci
Le Noci su un'opera di Christo
Nel ’70, alla fine di novembre, fu l’anima delle celebrazioni del decimo anniversario della fondazione del Nouveau Realisme, fondato da Restany in casa di Yves Klein alla presenza di Arman, Dufrène, Spoerri, Tinguely…La festa ebbe inizio con un’esposizione storica alla Rotonda della Besana; l’accensione della scultura di fuoco di Klein, seguita da tante altre iniziative in vari punti della città. Il bulgaro Christo Javacheff, che aveva imballato la fontana di piazza del Mercato a Spoleto; un pezzo di una valle delle Montagne Rocciose in California…, impacchettò la statua di Leonardo in piazza della Scala e il “re galantuomo” a cavallo in piazza Duomo; ma esplosero polemiche e fu costretto a liberare il sovrano e a rinunciare all’idea d’imprigionare la Cattedrale. Altre scenografie spettacolari in Galleria Vittorio Emanuele e in piazza Formentini con i muri invasi da manifesti strappati di Mimmo Rotella… Fu un’opera di Christo a provocare il mio incontro con Guido. Un pomeriggio del maggio ’63 imboccai via Brera per andare ad un appuntamento in via Fiori Chiari con il baritono Giuseppe Zecchillo (270 opere in repertorio ed esibizioni nei maggiori teatri del mondo) e sulla soglia di un locale al civico 2 notai una branda avvolta in un telo modellato con giri di corde. Mentre la osservavo, una voce alle mie spalle.

“Se vieni in galleria, ti mostro altri suoi lavori”. Guido aveva un sorriso benevolo, uno sguardo comunicativo, i capelli folti. Da allora andai a trovarlo spesso. Mi prese in simpatia, mi promise di farmi conoscere Dino Buzzati e Raffaele Carrieri, mi invitò a cena a casa sua. Quando nel ‘76 al Cida (Centro informazioni d’arte”), nella stessa via Brera, quasi di fronte all’Apollinaire, organizzai un’affollatissima serata pugliese in occasione della pubblicazione dell’inchiesta di Salvatore Giannella sul “Malpaese”, apparsa su “L’Europeo”, rispose al mio appello, facendosi precedere da alcuni quadri, che feci appendere in una sala riservata a lui.
Martina Franca, che rende sempre omaggio ai suoi figli più eminenti, il 7 febbraio 2004 gli dedicò un convegno nella Sala dell’Arcadia a Palazzo Ducale. La figura di Guido venne delineata da Nico Blasi, infaticabile direttore di “Umanesimo della Pietra”, presente fra gli altri il sindaco Leonardo Conserva. Nel corso della manifestazione, venne annunciata la decisione di intestare una piazza (dove sopravvivono le statue scolpite dal padre) all’illustre concittadino, che fu tra l’altro amico di Paolo Grassi, fondatore del Piccolo Teatro con Giorgio Strehler e poi sovrintendente del Teatro alla Scala e presidente della Rai dal ’77 all’80.

































































mercoledì 23 novembre 2016

Aria antica in corso Garibaldi 95 a Milano




                                                                                   

Mario Bardi

TANTE STORIE COMMOVENTI

IN UNA CASA DI RINGHIERA


La solitudine di nonna Caterina.

 

I murales eseguiti da Anna e dai suoi allievi.

 

L’egiziano e l’israeliano che temevano di spararsi addosso nel Sinai, se richiamati.

 

Il pittore Mario Bardi che nel ’68 disegnò il disastro provocato dal terremoto a Gibellina.






Franco Presicci



Casa di ringhiera
Mi affascinano le case di ringhiera, con la loro aria antica. Visitai quelle di via Borsieri, nel quartiere Isola; di corso San Gottardo, al Ticinese... interessato alla vita che un tempo vi si svolgeva; ai giochi che impegnavano i ragazzini; agli artigiani e ai loro laboratori… Cercavo tracce, ricordi da raccontare sul giornale. Un mattino della fine di ottobre del ’76 mi fermai davanti allo stabile di corso Garibaldi 95 - quasi all’angolo con via Moscova – con il timore che avesse bisogno delle grucce. Osservandolo, pensai al maggio 1898, alle barricate erette dai rivoltosi polverizzate dalla carica ordinata da Bava Beccaris: tre vittime, compresa una bambina di 9 anni.
Entrai nel cortile (il primo di tre), dove, sulla destra, si apriva lo studio di un noto e apprezzato pittore: Mario Bardi, siciliano cinquantenne, baffi capricciosi, capelli folti. Mi invitò ad entrare e mi mostrò com’era fatto il luogo in cui lavorava spesso fino a tarda sera e anche la domenica. Le pareti erano quasi coperte da quadri grandi e piccoli; da manifesti di mostre. Il cavalletto era occupato da una tela raffigurante un interno, con in basso a sinistra una piccolissima figura in abito barocco. Amava quello stile, e nei suoi dipinti ne infilava spesso un elemento. Avevo già letto di Bardi; e sapevo che dopo il terremoto di Gibellina, nel 1968, era andato sul luogo del disastro, per poi descriverlo, chiuso in una stanza de “L’Ora” di Palermo, in disegni fortemente espressivi destinati alla pubblicazione sullo stesso quotidiano.
Casa di ringhiera lungo il Naviglio
L’artista conosceva tutta la storia di quella casa di ringhiera. “Fatti un giro e ritorna da me, se vuoi che te la spieghi”, mi disse. Salii al primo piano e al secondo attraverso una serpentina di scale buie e consunte, dalle quali poi sbucò una donna vestita di nero, bassa, la chioma color carbone raccolta sulla nuca, occhi vivacissimi, molto in carne. “Cerca me?”. “No, signora”. “Allora?...”. “Mi chiamo Franco”. “Io Caterina”. E si avviò il dialogo. Aveva sette figli e venti nipoti. Sembrava fatta di ferro, “ma dentro sono vuota”. “Come le va?”. “Come vuole che vada?”. “Che cosa l’ha portata a Milano?”, “La fame”. “Suo marito che fa?”. “Mi aspetta al cimitero”. Era di Mazara del Vallo, paese che non avrebbe mai lasciato, “se non fosse stato per il lavoro… Non sto male qui: se mi lamentassi, farei un torto alla città. Ma sono rimasta sola e mi prende la malinconia…”.
Un angolo della casa di corso Garibaldi
Improvvisamente cigolò una porta e comparve Enrico, che era di Mantova, e da poco aveva finito l’Accademia. Viveva con Maurizia, allieva di Domenico Purificato a Brera. Mi invitò ad entrare per un caffè e notò che fissavo il pianoforte: “Non lo suona nessuno. Quando siamo arrivati era già lì. Non sappiamo di chi sia. Se qualcuno ne rivendica la proprietà può venire a prenderselo”. Sopraggiunse Gianni, un giovanotto alto, massiccio, disponibile. Quando un tavolo si azzoppava o la corda di una tapparella si spezzava chiamavano lui. A Milano vivevano anche i suoi fratelli. La madre era rimasta in Gallura e si sentiva tradita dai figli che avevano voltato le spalle al paese, costringendola a pascolare le pecore da sola. Lei si sedeva su un sasso e si abbandonava al proprio dolore.
Lo scultore Nado Canuti

Ridiscesi, imboccai il secondo cortile. Su una porta a sinistra, la scritta: “Scultore Nado Canuti”. Bussai. Mi si presentò un uomo basso, calvo, grembiule scuro. Anche lui cortese. Mi prese sottobraccio e mi guidò fra decine di opere in bronzo, enormi. Alcune mi sembravano ali o pinne di squalo. “Fanno parte dei ‘racconti del padre’, dedicati a mio figlio”. Le ho appena esposte in una mostra. Nell’angolo del terzo cortile troneggiava un fico. “Lo sai che quando è tempo mangiamo i suoi frutti?”. Mi voltai. La voce era di Adalberto Bertero, un pittore che avevo incrociato altre volte, altrove. Impiegato nella segreteria di redazione di un giornale”, curava anche la rubrica dell’oroscopo. E, siccome sapeva che il direttore lo leggeva, gli regalava sempre previsioni positive. “Come mai da queste parti?”. “Qui ho lo studio. E accanto al mio c’è quello di Mario Ligonzo, un tarantino che lavora al ‘Corriere della Sera’”. Ligonzo? Lo conoscevo. A Taranto aveva curato la pagina politica de “Il Corriere del Giorno”, e aveva avuto una galleria d’arte in via Berardi.
Mario Bardi
Tornai da Bardi, che mi parlò dello spettacolo teatrale che qualche mese prima un aiuto regista di Dario Fo aveva allestito proprio sul tetto del suo studio, avendo come pubblico anche gli inquilini della casa di ringhiera. In prima fila, Anna, compagna di un giovane israeliano e insegnante di educazione fisica in una scuola media. Era l’autrice dei murales che prendevano tutta la parete del suo ballatoio. Li aveva eseguiti con l’aiuto dei propri allievi. Ad Anna piaceva organizzare feste in casa. Durante una di queste si presentò un amico cubano che non sapeva dire da dove venisse e dove andasse. Mentre gli altri sorseggiavano, lui si addormentò su una poltrona. Se ne andò il mattino dopo senza salutare. “Vedi quel paravento Liberty? – riprese Bardi - Me lo ha regalato la padrona dello stabile, una contessa che morendo ha lasciato tutti gli arredi alla governante”. Poi mi disse di due coniugi, che, spaventati dai capelloni (cominciava allora la moda delle capigliature cespugliose), sprangavano la porta di casa alle sette di sera. “In corso Garibaldi 95 sono passati cubani, arabi, israeliani, spagnoli, americani…”. Ai tempi di Pinochet una sera si presentò alla porta di Mario Bardi un cileno che si era perso per le abbondanti bevute. “Dove sta il compagnero Ramirez?”. Chi era costui? . “Ramirez, Ramirez”, insisteva, credendo che l’artista lo avesse nascosto. Il pittore riuscì a convincerlo invitandolo ad entrare.
Lo scultore Canuti con il tenore Mario De Monaco
Commovente la storia di due amici: uno del Cairo, l’altro di Tel Aviv. Mentre i loro connazionali combattevano nel Sinai, erano spaventati dal pericolo di essere richiamati e di potersi sparare addosso. “Se ci mandano al fronte – si promettevano per darsi coraggio - ci mettiamo un cappello rosso in testa e così sul campo ci possiamo individuare”. Partì l’arabo. Il giorno dopo si fece male a una gamba e conquistò le retrovie.
Ugo Ronfani
Mario Bardi, uomo affabile e preparatissimo, aveva insegnato storia dell’arte al liceo scientifico. Aveva moltissimi amici. Tra questi i giornalisti Roberto Ciuni e Ugo Ronfani, il primo direttore de “Il Mattino” di Napoli dopo essere stato al “Corriere”; il secondo critico teatrale e vicedirettore de “il Giorno”, autore de “La toga rossa” e di altri libri sui palcoscenici di Parigi; di interviste a grandi personalità, da Jean Paul Sartre a Simon de Beauvoir… Per anni corrispondente dalla capitale francese, da pensionato assunse la direzione della rivista “Sipario”. A Taranto, al Jolly Hotel, nell’80, organizzò un convegno sul teatro, al quale partecipò anche Ernesto Calindri.
Sono tornato, un pomeriggio di tanti anni fa, in corso Garibaldi. Il portone del civico 95 era chiuso. “Inutile bussare”, mi disse un signore anziano. “Dentro non c’è più nessuno. Si vocifera che lo stabile sia destinato al sacrificio… Qui non dovrebbe essere toccato nulla…è una zona storica. Alla Foppa, nel 1848, i tedeschi, con l’ausilio di una ventina di soldati boemi, fecero irruzione in un abitato, saccheggiandolo, e uccidendo l’accendilampade Francesco Roncari, che aveva tentato di difendere la figlia e la moglie”. Al civico 93 aveva soggiornato per breve tempo Picasso; e chi ricordava il privilegio ne andava fiero. E con orgoglio il custode riferiva dei celebri artisti che vi avevano lo studio: Tallone, Alciati, Solenghi, Ferraguti-Visconti.


















mercoledì 16 novembre 2016

Una valigia potrebbe raccontare una vita



COMPAGNA DI UN EMIGRANTE RITORNA DOPO MEZZO SECOLO
 

La valigia
L’aveva realizzata Domenico Carbotti,
 
pellaio di Martina Franca, per un amico
 
in partenza per il Venezuela per motivi di

lavoro.

Dopo aver fatto forse l’agente

di commercio nel campo dei preziosi,

l’uomo, prima di morire, pregò la sorella
 
di far restituire il manufatto.




Franco Presicci


Una valigia, come tanti altri oggetti, può indicare la posizione che chi la possiede occupa nella società; rappresentare uno “status symbol”; ma anche essere testimone di una vita. Raccontare storie, viaggi, paesi visitati, gente incrociata. Una valigia può stimolare memorie, riecheggiare i tempi in cui è stata confezionata. Quella che aveva in bella mostra su un tavolo Domenico Carbotti, di Martina Franca, sollecitava domande e lasciava soltanto immaginare. L’aveva realizzata lo stesso Domenico circa 50 anni prima per un amico, Giovanni, in partenza per il Venezuela, e gli era stata restituita dopo che il destinatario era deceduto. Osservando quella valigia Domenico, Ninuccio in famiglia, cercava un indizio che gli aprisse uno squarcio sull’attività all’estero di Giovanni; che gli facesse capire se fosse riuscito a concretizzare i sogni, le aspettative. Giovanni aveva la vocazione per la professione di commesso viaggiatore, glielo aveva detto, ma aveva raggiunto l’obiettivo? Certo era un giovane con i piedi per terra, capace, intelligente, onesto, oltretutto di buon carattere, ma come si sa non sempre raccogliamo quello ci spetta. Dal baule comunque non venivano segnali.
Domenico Carbotti e la sua valigia

A quella decisone Giovanni non era stato spinto dallo spirito di avventura, dal fascino che può esercitare un luogo remoto; ma dalla voglia di un lavoro sicuro, non saltuario e vario come quello che gli aveva offerto fino a quel momento Martina: una decisione meditata e sofferta, che ingrossava il numero delle persone che avevano lasciato il paese per andare a cercare fortuna oltreconfine o al Nord. Tra il ’51 e il ’61 la popolazione di Milano lievitò del 24,1 per cento e quella di Torino del 42,6, mentre le nostre regioni subivano un salasso di due milioni di abitanti. In quegli anni le cronache registravano l’alluvione del Polesine; il processo contro un centinaio di braccianti accusati di occupazione di terre a San Severo; la vittoria di Fausto Coppi al trentanovesimo Tour de France. A Milano da quattro anni era stato battezzato con “L’Albergo dei poveri” il “Piccolo Teatro”, nome suggerito ai fondatori, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, dall’ampiezza del locale, ma anche dai teatri moscoviti; a San Giovanni Rotondo erano iniziati i lavori (nel ’47) per la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza di Padre Pio. Il ’51, quando probabilmente Giovanni salutò Martina, veniva inaugurato con le celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Verdi.



Peppino Cito decora i suoi trulli.

Era una sera dell’aprile del 1999, quando Franco, ex maresciallo dell’Aeronautica, sempre rispettoso e affabile, mi fece un invito. Eravamo nel laboratorio di Peppino Cito, quando, nel bel mezzo di una partita a scopone, tra una esortazione e un rimprovero per una carta giocata male (che provocavano i mugugni di Pierino Pavone, che pure aveva una pazienza invulnerabile oltre che un passato di venditore a Cutrofiano, nel Leccese, di cappotti confezionati a Martina), mi dette appuntamento al giorno dopo sullo Stradone, promettendomi una sorpresa.

Pierino Pavone
Quando arrivai, puntuale, in compagnia di Peppino, era seduto da una decina di minuti sulla panchina di fronte al tabaccaio e seguiva con lo sguardo chi conversando faceva la ronda da un capo all’altro della via dello struscio. “Ti voglio presentare mio cognato. E’ titolare di una ditta di borse dirimpetto al commissariato di polizia e alla sede dell’Inps, a 50 metri dal Foro Boario. Lo conosci? Domenico Carbotti”. Non lo avevo mai incontrato, questo signore noto per le sue virtù di gentilezza, riservatezza, ospitalità, bravura professionale, che venne ad aprirci con un sorriso comunicativo, ci fece accomodare nel suo ufficio, e, dopo averci offerto una tazza di caffè, ci guidò tra macchine e prodotti. Mentre ascoltavo la descrizione delle fasi di lavorazione delle pelli, notai in un angolo quella valigia, una specie di piccolo armadio con scomparti e cassetti. Ne fui colpito. E Domenico: “Non è solo un contenitore. La realizzai per un amico più grande di me di 20 anni, dopo che mi aveva manifestato l’intenzione di abbandonare il nido. Era venuto nella mia bottega di sellaio quasi urlando: ‘Mi trasferisco dalle parti dell’Orinoco’. La notizia mi lasciò perplesso: arrivava così all’improvviso… Dovevo fargli un regalo utile, resistente all’uso…Mi scervellai …Ma sì, che cosa c’è di più utile di una valigia? Non una valigia qualsiasi, ma particolare, originale. Ed eccola lì”. Vuota. Ma con tracce invisibili di Giovanni, delle sue esperienze nella terra che, scoperta da Cristoforo Colombo, fu colonia spagnola per quasi 283 anni.

Domenico Carbotti e Peppino Cito
Non seppe dare risposte neppure lo sconosciuto che gli aveva restituito lo scrigno. Si limitò a dire di avere solo eseguito l’incarico ricevuto. Basso, panciuto, capelli argentei, naso a becco d’aquila, occhi di antracite, ben vestito, aggiunse che Giovanni, “poco prima di morire, aveva pregato la sorella di fare in modo che la valigia tornasse a me, che l’avevo ideata e costruita”. Domenico poi, non per curiosità ma per affetto, aveva chiesto in giro, ottenendo risposte vaghe. “Probabilmente Giovanni era stato rappresentante di preziosi”. Almeno così sosteneva qualcuno. Domenico è una formica di Puglia. Ricco d’inventiva, serio, di poche parole, restìo ai trionfalismi, infaticabile, si era realizzato con l’impegno e la passione. Dagli otto ai dodici anni e mezzo eseguiva borchie e frontali, groppiere, museruole; poi in casa della mamma a ritagliare pelli per farne cinture e cartelle per la scuola. A sedici anni si impose con i suoi manufatti alla mostra dell’artigianato a Taranto…E lavorando sodo aprì a Martina Franca la sua ditta di borse, con l’orgoglio di essere allora il solo pellaio a creare quegli oggetti in una zona lunga fino a Napoli. Oggetti apprezzati per la loro raffinatezza.


Maria Matarrese


Fu un incontro piacevole, quello con Domenico Carbotti, esempio della Puglia che cammina, capace di allungare le gambe sul territorio nazionale. Sono trascorsi anni da quella visita, e non ho mai più avuto l’occasione di ripeterla. Non ho più visto neppure Franco (il cognome mi sfugge come un’anguilla), alto, snello, buon parlatore dal passo da bersagliere, che negli ultimi tempi, ogni giorno, macinava quattro chilometri (andata e ritorno), a piedi, per andare a trovare in campagna Peppino Cito. Un conoscente, in una delle tante feste martinesi con luminarie, bande, processioni, bancarelle, palloni dondolanti sulla folla, mi disse che Giovanni era tornato a Martina e che Ninuccio ogni tanto portava un fiore sulla sua tomba. Ne porteranno anche su quella di Peppino Cito, deceduto la settimana scorsa a 96 anni. Uomo dalle mille idee, tra l’altro dipingeva, faceva casette di legno in miniatura, ricavava dll’argilla statuine per il presepe e trulli così curati nei particolari, da meritare di essere collocati tra migliaia di fischietti in terracotta nell’esercizio di Maria Matarrese ad Alberobello. All’età di 16 anni trasmigrò a Milano, lavorò nella ditta Geloso, dopo un paio d’anni rientrò a Martina, aprì un emporio nel Ringo e tra una vendita e l’altra installava antenne televisive. Fu lui ad issare la prima, nella città delle case con i tetti a cono di gelato e della musica. Quelle case che Giovanni, nei suoi viaggi, non dimenticò mai.




















mercoledì 9 novembre 2016

La storia al femminile dei locali prestigiosi

LE DONNE CON LO SCETTRO NEL REGNO DELLA CUCINA



Presicci intervista il presidente Pertini

Mamma Lina, anima del milanese Giamaica, mèta di artisti, letterati, allievi dell’Accademia di Brera.

Eccelse imprenditrici, fra tante altre, Chiaretta Francesconi, del “Caffè Florian” di Venezia, e Monica Brioschi, del ristorante “Boeucc” di Milano, in piazza Belgioioso.


Franco Presicci

Qualche anno fa ho conosciuto una donna che aveva dato vita a Milano a due pescherie, a un caffè in centro, a due ristoranti, ricavandone uno da una vecchia cascina … Una donna energica, acuta, dinamica.
Delia Scala
Bassa, elegante, carina, età indefinibile. Imprenditrice di talento. Dava disposizioni ai dipendenti con sguardi severi. Era di Trani, la bella città pugliese ricca di chiese. Sembrava nata con un timone in mano. Uno dei suoi locali spandeva profumi nei pressi di corso Buenos Ayres ed era molto ben frequentato. Al tavolo vicino al tuo potevano venirsi a sedere il grande chirurgo o la “star” di Hollywood, i giornalisti nottambuli e gli attori che recitavano al Nuovo, all’Odeon… Lucrezia Di Venosa – è di lei che parlo – regina dell’accoglienza, aveva la plancia di comando di fianco alla cassa. Ci andai spesso con il collega del “Corriere della Sera” Alberto Berticelli e con l’ispettore-capo Alberto De Simone, dirigente della sezione artificieri della questura, un leccese serio, ligio al dovere, infaticabile, che più volte rischiò di saltare su una bomba mentre la disinnescava. Ci andai anche con Vito Plantone, amico di Santino, il cognato di Lucrezia, che aveva un ristorante in via Fatebenefratelli, proprio di fronte alla polizia.
Piazza Duomo
Lucrezia è un esempio. Sono una flotta le donne che hanno gestito o gestiscono templi della ristorazione, caffè, rosticcerie, alberghi, antiche trattorie prestigiose. Il bellissimo libro “Locali storici d’Italia” 2016, edito dall’omonima Associazione culturale, di cui è segretario generale Claudio Guagnini, dedica loro pagine interessanti. Nella sua quarantesima edizione le definisce coraggiose, sognatrici a volte, determinate, ma anche passionali nel governo dell’attività; “e con quel gusto, quell’impronta, stile e anche dolcezza e fermezza e senso di continuità che solo una donna può avere e dare…”. Con capacità indiscutibili, dunque, e l’orgoglio in molti casi di aver costruito il vascello.

Galleria Vittorio Emanuele
Ecco quindi Maria Teresa Verda, del Caffè Balzola di Alassio, realizzatrice del successo dei famosi Baci battezzati con il nome della città (oggi il gioiello è nella mani della nipote Teresa Balzola affiancata dal fratello Carlo Maria). Ed ecco Carla e Maria Teresa Piccardo che da 40 anni reggono il Caffè Pasticceria di Imperia, in cui hanno fatto sopravvivere gli arredi in stile umbertino e le altre preziosità volute nel 1905 dalla loro prozia Teresa e dal nonno Giacomo. E che dire di Giulia Michi, cuoca esperta e fantasiosa, moglie di Alberto Pepori, del celebre ristorante Bagutta di Milano, aperto nel 1924? Più d’una qui le signore della cucina: Bianca Cioni, moglie di Natale, uno dei fratelli Pepori; Mariangela Ghislandi, Caterina Bonfiglio, che prosegue la tradizione. E’ in questi saloni che si svolge il Premio Bagutta, concepito l’11 novenbre del 1926, notte di San Martino, da Riccardo Bacchelli, Orio Vergani, Mario Vellani Marchi, Paolo Monelli e altri. Premio ambitissimo (fu dato, nel ’27 a Giovanni Battista Angioletti; nel ’29 a Vincenzo Cardarelli e in tempi più recenti a Mario Soldati, che per l’occasione intervistai nel suo studio milanese; a Giorgio Bocca, che mi ricevette per un’intervista nella sua abitazione, nella stessa via Bagutta).
Una domenica dell’80 sorpresi all’uscita il presidente della Repubblica Sandro Pertini e gli rivolsi una decina di domande per “Il Giorno”.
Monica Brioschi dovette sostituire il papà Paolo, gran signore della ristorazione, nella guida del Boeucc di Milano mentre sosteneva gli esami per diventare notaio. Spiccate doti di intelligenza e cortesia, ha inventato e affiancato il Bistrot del locale, nato nel 1696. Lina Mainini, stella del Bar Jamaica, nella milanese Brera, meta di musicisti, pittori, scrittori, fotografi. Mecenate, generosa con gli avventori squattrinati e renitente al pagamento con i quadri per non sfruttare le momentanee difficoltà dell’artista, era amata da tutti. Flava Jozzi, amministratrice del Caffè Greco di Roma e anima delle iniziative culturali che vi si svolgono per non interrompere l’opera di Antonietta Gubinelli Grimaldi, la cui famiglia fu proprietaria del “tempio” dal 1872 al 2000. Nel 1919 il celebre caffè vide nascere il circolo dei caffegrecisti, che ogni martedì si riunivano intorno a Giuseppe Prezzolini. E ancora la combattiva e simpatica Daniela Serafini, quarta generazione della dinastia che regge il Caffè della Pace capitolino dal 1891.
Galleria Vittorio Emanuele
Antonietta Cacace, che assieme al marito Vincenzo Acampora nel 1912 ideò l’Hotel Minerva di Sorrento, oggi diretto con entusiasmo e competenza dalla nipote Antonietta. Signora dei sapori anche Donna Livia Russo, che, sempre a Sorrento, si è distinta, con il coniuge Luca Fiorentino, nel rilancio del lussuoso Hotel Excelsior Vittoria.
Le donne sono una forza. Hanno doti di comando, di fantasia e di concretezza. Margherita Fontana nel ’56 con il marito Andrea Merlino acquisì l’Hotel Moderno di Pavia e lo ha gestito personalmente, occupandosi anche del restauro del bellissimo palazzo liberty, lasciando poi il testimone al figlio Giovanni. La dinamica, intelligente Gabriella Oliosi, con il marito Gabriele Bertaiola, è stata alla base della fama e del fascino dell’Antica Locanda Mincio di Valeggio, in provincia di Verona, dove dominano le storiche ricette mantovane del fondatore, Angelo, trasmesse dalla madre di lui, Lisetta.
Sono, queste, soltanto alcune delle signore dei locali storici italiani. Straordinaria imprenditrice Chiaretta Francesconi, tra Sette e Ottocento fulcro del Caffè Florian di Venezia (data di nascita 1720), molto stimata dallo scultore Canova. Nelle sue celebri sale Casanova lanciava i suoi messaggi alle dame e Goldoni si ispirò per la “Bottega del Caffè”.
Ristorante Biffi
Raffinatezza, gusto, gentilezza le virtù di Ezia Calatti, nipote di Napoleone, padre dell’Antica Trattoria della Pesa di Milano, dove nel 1933 lavorò Ho Chi Minh. Ezia condusse, con passione e notevole competenza, la trattoria, una delle ultime, gloriose di Milano, frequentata da Arrigo Boito, Mondadori, Montanelli, Rizzoli, Pirelli, Falck, Pasolini… Eccellente anche Marisa Manaigo, dell’Hotel de la Poste di Cortina, approdo di Hemingway… Grandi donne e locali antichi, prestigiosi, ricchi di storia. Come il Gran Caffè Gambrinus di Napoli, che, inaugurato nel 1860, conserva tra l’altro i dipinti dei massimi pittori dell’Ottocento napoletano. Qui Edoardo Scarfoglio e la moglie Matilde Serao nel 1885 presentarono il quotidiano “Il Corriere del Roma” (collaboratori la Contessa Lara, Antonio Fogazzaro, Salvatore Di Giacomo, Giuseppe Giacosa…) e si sedevano Croce, Sarte e altri personaggi illustri, tra cui l’autore de “Il vecchio e il mare”.
Nel Grand Hotel et de Milan, in via Manzoni a Milano il tenore Enrico Caruso creò il primo disco, incidendo “Una furtiva lacrima”. Il Biffi, nel centro della Galleria, sempre a Milano, dal 1867 ebbe tra i suoi clienti Arturo Toscanini, Giuseppe Garibaldi e ancora oggi ospita celebri personalità. Al Caffè Ristorante Al Cambio di Torino, aperto nel 1757, si vedevano spesso Rattazzi, Lamarmora, Cavour…
A Milano, nelle vicinanze del Duomo alla fine del ‘700 accesero le loro luci i primi Caffè, dalla clientela numerosa e varia. Nella piazza, sotto il Coperto dei Figini, Carlo Mazza inaugurò un locale prestigiosissimo e di lunga vita, sacrificato nel 1862 al progetto della costruzione della Galleria Vittorio Emanuele. Caffè sorsero anche nella Contrada dei Cappellari. Notissimi il Caffè Commercio; e a Porta Venezia, all’epoca Porta Orientale, il Caffè Belvedere, oltre al Caffè dei Servi, che spiccava per la sua eleganza.
La lista è folta, e comprende, fra gli altri, il Savini, inaugurato nel 1867. In tempi più recenti, il Santa Lucia, che nel 1929 lanciò la pizza nella città dei navigli e servì D’Annunzio e Mascagni, oltre a grandi attori, come Totò, Tofano, Stoppa, De Filippo, la Osiris, Sinatra…E’ uno dei tanti sacrari dell’arte culinaria.

mercoledì 2 novembre 2016

Il pane di Altamura, Laterza e Matera alla corte di sua maestà Lenoci


Lenoci Pane Olio e Vino
                                           
Lenoci impegnato con la generazione ERASMUS


PERSONAGGIO ECLETTICO


DOCENTE DELL'UNIVERSITÀ CATTOLICA
SACRO CUORE DI MILANO



PROFESSIONISTA MOLTO APPREZZATO DALLA GENERAZIONE ERASMUS E DAL MONDO DELLA CULTURA  

                                                                    

DEVOTO DI DON TONINO BELLO                                                          




Franco Presicci



Lo hanno definito: il professore viaggiatore, il conferenziere instancabile, un veicolo di cultura, l’intellettuale alla ricerca dei valori diffusi nel nostro Paese. Docente di “Metodologie e determinazioni quantitative d’azienda 2” all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quando gli impegni professionali glielo consentono, Francesco Lenoci è sempre pronto ad accettare un invito, venga da Milano, da Messina, da Pesaro, per parlare de “L’Italia dei sogni”, l’interessantissimo volume di Goffredo Palmerini; di un suo libro fresco di stampa, di Pace…
... generazione Erasmus
La prima volta l’ho ascoltato alla festa per i 25 anni de “Il Rosone”, il periodico battezzato nel ’70 nel ristorante “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella, in via Vittor Pisani a Milano; e in seguito alla facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo barese, dove intrattenne l’uditorio sul sistema bancario, spiegando con parole semplici passaggi intricati. L’ho seguito a Grottaglie, per ascoltare da lui la storia di Nicola Fasano, che nell’ambito delle creazioni in terracotta realizzò iniziative “rivoluzionarie” anche dal punto di vista commerciale. In uno dei nostri incontri ho ripercorso in un baleno i miei trascorsi a San Severo, rispolverando episodi cari: la cerimonia al Teatro Comunale per la consegna del Premio Fraccacreta, nel ’57, a Vittore Fiore per il volume di versi “Ero nato sui mari del tonno”, presente il padre del poeta, Tommaso; il panificatore che per una mostra dell’artigianato del ’50 fece un esemplare tanto grande, che per tirarlo fuori dal forno dovettero allargare l’apertura. Credevo di stupirlo, e Lenoci mi compensò con un sorriso, facendomi capire che ormai non era più una novità da “Guinness dei primati”.
Pane di laterza delle Fornerie Laertine
Francesco Lenoci ha un rapporto particolare con i mitici grandi pani, che ha avuto inizio nel 2014. Il 9 agosto eccolo nella masseria “Cappotto” di Laterza, dove si è inginocchiato di fronte a una gloria della stessa città: 8 chili di peso, delle Fornerie Laertine.
L’11 ottobre a Milano Golosa presso il Palazzo del Ghiaccio, aiutato da Giacinto Mingione, ha preso in braccio un pane di Matera di ben 10 chili, confezionato dall’Antico Forno a Legna di Perrone Lucia. Il 28 novembre al Teatro Mercadante del paese natale di Tommaso Fiore (scrittore e uomo politico, nato il 7 marzo del 1884, autore di “Un popolo di formiche”, Premio Viareggio ’52, e di altri libri, come “Il cafone all’inferno”), con un valido sostegno, ha sollevato un pane di Matera di addirittura 12 chili, orgoglio dei fratelli     Di Gesù.
Pane di altamura con Beppe Di Gesù
Nel 2016, nuovamente al Palazzo del Ghiaccio della terra del Porta si è cimentato, emozionandosi, con una  delizia di 15 chili, sfornata, anche questa, da Perrone Lucia. Un crescendo di dimensioni e di qualità degne del Museo del pane di Sant’Angelo Lodigiano, sorto nel 1983 per iniziativa della Fondazione Morando Bolognini. Di pane Lenoci ha parlato anche su vari palcoscenici, in “Dalla terra la vita”, messa in scena durante Expo 2015. A Laterza, che sorge a 362 metri sul margine della Gravina omonima, nella masseria “Cappotto” dei coniugi De Meo è tornato nell’agosto dell’anno scorso, accompagnato dai poeti dialettali Giovanni Nardelli e Benvenuto Messia.

Pane di matera con Giacinto Mingione
Nell’occasione ha dedicato solo qualche accenno: al pane, che vanta una storia millenaria; ai panificatori, che hanno tra gli antenati gli Egizi, autori dei primi forni con volta a cupola; a Roma, che ospitò i primi negozi per la vendita del prezioso alimento. Ha trattato il tema dell’ambiente e degli sfregi che incoscienti speculatori fanno della natura, un patrimonio che appartiene a tutti. Francesco Lenoci è una calamita. Ovunque attira un pubblico numeroso e attento, riscuotendo approvazioni entusiastiche, come nelle sale di rappresentanza di alcuni istituti di credito milanesi, in via Feltre, in piazza Affari…; al Rotary Club di Merate; al Lions Club di Martina Franca, sua città natale; nella Capitale, presso la Biblioteca del Senato per il Premio Menichella, di cui è segretario generale; a Milano, un po’ dappertutto, invitato dalla generazione di giovani che gli sta tanto a cuore: la generazione Erasmus. All’Umanitaria, nel capoluogo lombardo, ha tenuto una lezione di gastronomia, nel corso di un’esposizione di prodotti pugliesi in vista dell’Expo, tra cui il capocollo di Martina Franca e, ancora il pane, che con il vino e l’olio extravergine d’oliva domina le nostre tavole.

...generazione Erasmus
Lenoci esalta il nettare, sapientemente raccontato in “Vino al Vino” da Mario Soldati, che compì “viaggi d’assaggio” da Palermo a Venezia, da Napoli a Sassari, a Taranto, contemplando la fisionomia del paesaggio. Lenoci ha celebrato il sangue della vite presso la Biblioteca comunale di Verona, la città di Vinitaly, e a Milano, da vari anni nel corso della “Notte di San Martino”, la più grande festa salentina fuori del Salento, dove ripete senza soluzione di continuità “Amo il buon vino, festeggio San Martino”. Lenoci ama l’ulivo. Ha parlato dell’olio a Corato, la città della coratina, che ha il centro storico a forma di cuore; e recentemente a Milano presso il Palazzo dei Giureconsulti, dove ha esortato ristoratori e farmacisti a imitare il comportamento degli chef al cospetto dell’olio extravergine d’oliva, cospargendo il dorso della mano dei clienti con preziose gocce di olio evo. Con il professore discutiamo di tante cose: del Festival della Valle d’Itria, del quale è un appassionato; e di Paolo Grassi, che di quella rassegna, nota in tutto il mondo, è stato un sostenitore; della “Ghironda”, che da Martina si è trasferita altrove; e di Milano, dei suoi cortili, dei suoi palazzi, delle facciate Liberty, delle chiese, dei navigli e dei ponti che li scavalcano, amati dal poeta Alfonso Gatto, che era di Salerno, dal giornalista Gaetano Afeltra, di Amalfi, dall’architetto Empio Malara, che vanta una lunga militanza nella difesa di questi corsi d’acqua carichi di storia.
             
Veduta di Milano dallo Studio di Lenoci

A Lenoci piace Milano. Dalle finestre del suo studio, al quinto piano della Terrazza Martini, si vedono le guglie della cattedrale e l’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele, che dà su piazza del Duomo. So che quando può fa quattro passi fino a via Morone, che sfocia in una delle più belle piazze, la Belgioioso, che raccolse i sospiri di Stendhal sotto le finestre della baronessa Matilde Viscontini, “bella e altera come l’Erodiade leonardesca, anima angelica nascosta in un corpo meraviglioso”, per lo spasimante francese.

Francesco Lenoci
E da via Morone, dopo aver sostato qualche minuto davanti al portone di casa Manzoni, va in via Bigli, dove abitò Eugenio Montale e Clara Maffei, la contessa più famosa del Risorgimento, tenne il suo salotto culturale, frequentato da patrioti meneghini, da Balzac, Liszt, Tommaso Grossi, GiuseppeVerdi… Un paio di quelle passeggiate le abbiamo fatte insieme fino a piazza Missori per imboccare via Torino, un tempo ricca di artigiani di altissimo livello (armorari, spadari, orefici…), tutti ricordati sulle targhe; e sede, nel Cinquecento, della Malastalla, un carcere per debitori insolventi e minori deviati, che vivevano in condizioni disastrose non solo dal punto di vista igienico. Camminando discutevamo delle attrattive della metropoli: i monumenti, il Castello e toccavamo anche il tema delle prelibatezze locali, come il panettone, la cui nascita si interseca con la leggenda: frutto dell’amore fra Ughetto, falconiere di Ludovico il Moro, e Adalgisa, figlia di un “prestinee”. L’idea di aggiungere al pane burro e zucchero e poi cedro candito e uova e uva sultanina fu del giovanotto, che ottenne così uno strepitoso successo. Era nato il “pan grande” o “pa de ton”, da servire il giorno di Natale.