Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 25 gennaio 2017

Cercò invano l’autore dell’inganno


 

Una scoperta dolorosa la prima notte di nozze





Edmondo Capecelatro

 

Una storia da film di

Pietro Germi.

 

 

 

Trovò il colpevole in un cimitero

milanese e si vendicò affiggendo

sulla sua tomba biglietti

con insulti.

 









Franco Presicci


Capecelatro intervistato
La storia dell’uomo che mi accingo a riferire non è tratta da un’idea teatrale di Edmondo Capecelatro, autore di vari libri anche su Totò e Eduardo De Filippo; e di un romanzo, molto bello e interessante, “Le ragioni di Lucia”, che si sviluppa fra ingiustizie, prepotenze, un amore sfortunato e imprese di briganti. E’ una delle tante storie che Capecelatro ha risolto al tempo in cui era commissario e poi vicequestore, umano e coraggioso, attento e preparato. Lo conobbi una notte del maggio dell’80, nel corso di un’operazione di polizia organizzata per sbancare una bisca clandestina (ce n’erano molte, al chiuso e all’aperto). Prestava servizio in via Benaco, in zona Corvetto, al commissariato Scalo Romana, allora guidato da Enzo Sciscio, che era di Stornara, un piccolo paese pugliese. Pur avendo parecchi amici tra i cronisti soprattutto di nera, da Michele Focarete, del “Corriere della Sera”, a Piero Colaprico, di “Repuublica”, sempre alla ricerca di “tartufi”, Capecelatro era cauto e scrupoloso, e non si sbilanciava, per salvaguardare le indagini in corso. Alto, barba ben curata, napoletano dall’accento inequivocabile, gentile, conversazione contenuta, discreto, rispettoso, intransigente. Quasi sessantenne, è andato in pensione qualche anno fa e ha intensificato l’attività di scrittore. E di attore di notevole qualità. Proprio tra una prova e l’altra sul palcoscenico del teatro San Babila, in corso Venezia, calcato a suo tempo anche da quel grande gentiluomo e interprete di classe che fu Ernesto Calindri (dopo un’intervista nella sua abitazione di via Statuto, nel novembre ’71, assistetti alla commedia “Uno sporco egoista”, da lui recitata con estrema misura), Edmondo mi ha ricevuto in vestaglia sul palcoscenico per esaudire le mie curiosità. “Una storia, soltanto una storia, fruga nella memoria, ne avrai archiviate tante nella tua brillante carriera”. “Ce l’ho, ce l’ho la storia. Ecco, te la racconto”. E, seduto su una poltrona stile Bergèr, prese a versare il succo con lentezza, dovendo recuperare qualche dettaglio che faticava ad emergere. I ricordi, si sa, non sempre resistono al tempo che sfreccia come un bolide sull’autodromo di Monza: possono sfumare, perdere pezzi.
“Al cimitero di Chiaravalle accadeva un fatto strano, quasi incredibile: su una lapide, appiccicato di fianco alla foto, appariva un biglietto carico d’insulti contro il defunto… Il fatto venne segnalato e io mobilitai due miei collaboratori”. I foglietti si susseguivano, ma lo scrivano riusciva sempre a dileguarsi. Un fantasma certo non era. Ma uno che, probabilmente, subito dopo l’affissione, si fingeva dolente di fronte a un sepolcro vicino. Gli operai notavano il pezzo di carta, lo staccavano, lo leggevano, lo consegnavano a chi di dovere, la polizia veniva avvertita, ma ogni volta era una delusione.

Sala,Colaprico,Presicci

La faccenda andava chiarita. Capecelatro, che oggi fa anche l’avvocato, sollecitava gli agenti, ma l’ectoplasma era un fulmine. Lo si poteva sorprendere soltanto appostandosi ben nascosti. Non ce ne fu bisogno: un inserviente che si trovava a passare di lì sbirciò una figura in atteggiamento sospetto; lanciò il segnale, la polizia arrivò in un baleno. Lo sconosciuto fu accompagnato in via Benaco e introdotto nell’ufficio del capo. “Comprende che deve dare delle spiegazioni. Che cosa le passa per la mente?”. L’uomo, ben vestito, le braccia conserte, gli occhi bassi, non rispose. Capecelatro attese con pazienza, tornò a proporgli la domanda, stette in silenzio, intuì che il pasquino era combattuto, gli offrì un caffè, se preferiva una bibita. Un agente entrò con un vassoio, lo appoggiò sulla scrivania, ignorato dall’ospite, che alla fine, sguardo perso, voce sottile, confessò che la sua rabbia veniva da lontano.
Capecelatro in scena
Il motivo? Quarant’anni prima aveva scoperto che la donna appena sposata era un fiore già colto. E subito chiese il nome del responsabile. “Ma lei, temendo che potessi fare una pazzia, si schermì. E così per tutto il tempo che è rimasta in vita. Ogni volta che la incalzavo si trincerava, si chiudeva a riccio. E io mi riaccendevo, mi tormentavo. Quel nome dovevo saperlo, non poteva rimanere nell’ombra. L’inganno compiuto era gravissimo, imperdonabile. L’individuo si era proclamato fortemente innamorato, aveva realizzato l’obiettivo infame ed era sparito. Dovevo rintracciarlo, dirgli quello che meritava, punirlo…Poi mia moglie poco prima di morire si è decisa a smascherare lo scellerato. E allora mi sono messo a cercarlo. Dal paese se n’era andato e ho perlustrato i centri vicini. Ho chiesto informazioni a tanta gente, giravo dalla mattina alla sera. Ricevevo anche notizie imprecise, fuorvianti, che moltiplicavano i miei passi…”.
Edmondo Capecelatro durante le prove

Il ritmo della narrazione si accelerava. L’uomo sembrava non doversi fermare più. Precisava, commentava, circostanziava. Aveva bisogno di sfogarsi, faceva, era evidente, un grande sforzo a contenere l’ira. Capecelatro non se la sentiva di dirgli che poteva bastare. E lui avanti, sempre più spedito, alterava i toni, li attenuava. Invocava il consenso dell’ascoltatore, che lo osservava stupito. “Poi qualcuno mi ha detto di aver saputo che quel tale era emigrato in alta Italia. Un altro mi ha indicato Torino, un altro ancora Pavia. Ma no: si trovava nell’Hinterland di Milano; no, no, proprio nel capoluogo. E questa era la città più probabile. Qui occorreva indagare. Ma avevo bisogno di una conferma, non potevo vagabondare. Mi è venuto incontro un amico che viveva sui navigli. Dentro di me sorgevano gli scrupoli. Non volevo creare fastidi, mi innervosivano i soliti consigli di lasciare le cose come stavano, di soprassedere, di mettere una pietra sulla tegola che mi era caduta addosso, perché dopo circa mezzo secolo non ne valeva la pena. Tentavano di placarmi, ma ottenevano l’effetto contrario. L’esperienza traumatica l’avevo fatta io, io sapevo quello che provavo”.
Edmondo Capecelatro
Alla fine un varco si è aperto, ma senza darmi sollievo. “Qualcuno mi ha detto che stavo inseguendo un morto”. “Un morto?”. “Sì, è così. Quello se n’è andato all’altro mondo”. “Forse era una bugia detta a fin di bene, tesa a mettere fine al mio travaglio, chiudere per sempre questa pagina affannosa. Ma non mi sono dato per vinto. Ho proseguito; ho interrogato, pregato, sollecitato, e ho scoperto che quel tale si era spento davvero. Ma dove era sepolto? Attraverso altre vie, bussando qua e là senza mai stancarmi, ho saputo che era disteso sotto quel marmo. Non potevo fare altro che mettere nero su bianco, esprimere in quel modo la mia vendetta: con quei foglietti che ogni volta mi davano una certa soddisfazione, anche se lui non ha potuto leggerli…”.
“E adesso? Che cosa pensa di fare? Può ritenere conclusa la partita? Mi ascolti. I morti, qualunque peccato abbiamo fatto in vita, vanno rispettati. Mi prometta di starsene tranquillo. Il camposanto è luogo sacro, inviolabile”. L’uomo ascoltò la lezione, si alzò, ebbe un momento d’indecisione, probabilmente trattenne l’ultima chiosa, e imboccò la porta, salutando sommessamente. A Chiaravalle – che, inaugurato nel 1936, si trova in via Sant’Arialdo, nella periferia sud della città, e ha i muri di cinta in mattoni rossi – non lo hanno più visto. Edmondo mi ha promesso altre storie. L’archivio della sua memoria, un pozzo senza fondo, ha la porta aperta. Ne approfitto. Sono o non sono un cronista?










mercoledì 18 gennaio 2017

Le notti trascorse al giornale




ASSASSINII E RAPIMENTI

UNA MILANO BOLLENTE



Il turno aveva inizio alle 19 e si

concludeva all’1.30: ore in cui

poteva accadere di tutto, anche

l’evasione di un detenuto e la

scoperta di un covo di terroristi.

Catturarono Epaminonda, boss

del clan dei catanesi, e la notizia

fu tenuta segreta fino al giorno

dopo. Le telefonate delle donne

che parlavano con i mariti morti.

 

 

                                                                              Foto:da sinistra - il vice direttore Guido Gerosa, Gigi Gervasutti, Maurizio Acquarone, il questore Antonio Fariello in visita al Giorno e Presicci.

                                                



Franco Presicci


Raramente le notti al giornale erano tranquille. La Cronaca cominciava a spopolarsi alle 20; alle 21 il nerista per il pronto intervento rimaneva con il collega addetto all’impaginazione, che cambiava in caso di un avvenimento importante: a volte anche due omicidi, se non di più, contemporaneamente o a una certa distanza di tempo l’uno dall’altro, in luoghi diversi: fuori di un “night”, in aperta campagna, in un ristorante, sulla strada... Decisi nell’ambito della criminalità organizzata e non.

Vecchia sede de "Il Giorno"

Una sera cogliemmo la notizia di una donna assassinata in via Cascina Barocco, dove la città confinava con la campagna, a una quindicina di chilometri da via Fava, dove, in un fungo di cemento armato, aveva sede “Il Giorno”. Erano le 21 passate. Tardissimo, per noi, con la prima edizione prossima alla chiusura. Arrivammo quando erano state da poco spente le fiamme sul corpo di una quarantenne o poco più. Gli investigatori non avevano ancora notizie. La borsetta mancava, quindi non c’era alcun elemento idoneo a identificare la vittima. Segno che il delitto era stato compiuto altrove.
Presicci, Lotito e Giorgio Guaiti
Era stato un passante a scoprire la scena. Dovevo saperne il nome e l’indirizzo. Ma gli investigatori non volevano esporlo. Una voce mi sussurrò: “Io so chi è”. E arrivai a una cooperativa inondata da fumo e odore di vino. Il contatto dette qualche frutto: “Stavo portando a spasso il cane e sulle prime ho pensato che stesse bruciando una bambola; poi ho capito che non era così…”. E altro. Aveva 60 anni e faceva il meccanico. Tornai in via Cascina Barocco, dove mi fu mostrata una tanica di benzina, trovata dietro un cumulo di sassi. La concorrenza, sfiduciata, aveva già levato le tende, quindi quel dettaglio, fissato dal fotografo Pizzamiglio, e un paio di altri furono un’esclusiva. Una notte, verso le 20, notai che la radio con la quale captavano gli umori e i sussulti della città, era muta: colpa di un collega infastidito. Telefonai subito all’ispettore di turno alla Volante. “Come, non lo sai? A Figino due ore fa uno zingaro ubriaco ha ucciso la titolare di un bar che gli aveva negato l’ennesimo bicchiere. “Due ore fa?”. Il reparto fotografico era presidiato da Gaetano Montingelli, un professionista che scattava subito. Lo chiamai, pregai l’autista Gusmaroli di premere sull’acceleratore e via verso Figino.
Presicci,Luisella Seveso,sindaco Tognoli,alle spalle Elena Golino
Fui fortunato. Il maresciallo dei carabinieri, Pignataro, non aveva ancora parlato con i giornalisti e addirittura teneva chiusa la porta del locale. Dall’ombra vidi sbucare il maresciallo Oscuri. Mi fece solo un segno per non essere notato dagli altri, e lo seguii fino all’accampamento del nomade, dove individuò la “roulotte”, ma non vi trovò alcunché di interessante, nemmeno una foto. Pioveva a dirotto, si affondava nel fango. Gusmaroli mi venne incontro per avvisarmi che attraverso la radio (ce l’avevamo a bordo), il capocronista, Enzo Catania, chiedeva notizie per il titolo. Erano anni bollenti. Il 2 novembre ’79, la strage nel ristorante “La strega”, a Moncucco; il 10 ottobre ’80 l’omicidio di un amico di Liggio in piazza Napoli; il 14 maggio quelli di altri due in piazzale Susa.
Il capocronista Enzo Catania
All’alba del 29 giugno del 1984 in via Selvanesco, alla periferia sud della città, in un campo di granturco, tre vittime. Alle 20 del 18 novembre dell’81, la strage del Lorenteggio: quattro morti, tra cui un benzinaio estraneo a ogni vicenda di malavita. Movente? Un centinaio di milioni persi in una bisca, quella di via Panizza, e ripresi alle tre del mattino con le armi in pugno. La sera successiva il titolare della “belanda” chiuse la partita. Riempii una pagina, con richiamo in prima. Un’altra notte movimentata fu quella del 17 luglio ’87: fuga di Vallanzasca dalla nave Flaminia ancorata nel porto di Genova. Lo stavano trasferendo a a Bad’e Carros, in Sardegna. Scrissi un pezzo alla svelta e il direttore Lino Rizzi mi spedì nel capoluogo ligure, dove il traghetto era ancorato. Uno “scoop”. Una notte in via Rubattino vennero uccisi su una vettura un’entraineuse”, che lavorava in un locale notturno a Lugano, e il suo compagno che, a quanto pare, aveva fatto uno errore. Il giorno dopo andai in Svizzera, indagai in un “night” in zona Paradiso, e mi fu indicato il “residenze” che li aveva ospitati. Lì raccolsi informazioni e visitai anche la cameretta in cui avevano dormito.
Tanino Gadda e Luisella Seveso
Da sx: Lotito e Presicci, alle spalle Gadda e Basso


Ricordo una sera del gennaio ’80. In piazza Piola si scatenò una sparatoria tra due grossi calibri della malandra. Sul posto vidi uno dei due fra un gruppetto di poliziotti; e un altro steso a faccia in giù su una barella. Poi seppi che un proiettile aveva sfiorato il viso di una bambina che stava per attraversare la strada. La notte del 26 giugno ’84 il delitto che mi tenne impegnato per giorni e giorni: Terry Broome, l’americana aspirante fotomodella che sparò a Francesco D’Alessio, un giovane notissimo, proprietario di una scuderia all’ippodromo. Venne arrestata nell’hotel Bahmpost di Zurigo. Ci andai in aereo, presi una stanza nello stesso albergo, feci un’abbondante mietitura e dopo un paio di giorni tornai in treno con il privilegio di viaggiare nello scompartimento riservato alla detenuta e ai poliziotti che l’avevano in custodia.
Nino Gorio
Le ore libere ce le occupavano le donne anziane che soffrivano di solitudine e di insonnia. Telefonavano verso mezzanotte, per denunciare un fantasma in casa o riferire il dialogo con il marito defunto. Alcune s’informavano sul processo alle brigate rosse in programma per il giorno dopo. Eh, le Brigate rosse. Chiamavano in Cronaca per segnalare un volantino in un cestino portarifiuti, in via Imbonati, in via Progresso, o in un’altra via… Una sera una voce arrogante me ne indicò uno sul ripiano dell’edicola del mezzanino della metropolitana di via Palestro. Era nel volume dalla M alla Z. Prendendolo, mi accorsi di due donne che facendo finta di accendere la sigaretta mi esaminavano. Al rientro trovai i carabinieri, che mi fecero le domande rituali: “La telefonata è arrivata direttamente a te? O è passata dal centralino?”. Il ‘telefonista’ aveva cadenze dialettali?”. “ La voce era giovanile o no?”. “Era maschio o femmina?”; “Il contenuto della telefonata?”… E non dico i delitti e gli arresti dei tanti terroristi. Una notte, grazie al solito amico, scoprii l’appartamento in cui erano attesi Mario Moretti e Enrico Finzi, quando vennero arrestati, il 4 aprile ’81, quasi sotto le finestre di un convento, nei presi della stazione Centrale.
Bisognava stare sempre all’erta. Più la nottata appariva tranquilla e più telefonate si facevano: ai carabinieri, alla polizia, ai vigili… Soprattutto quando la radio ci snobbava. Se la “soffiata” arrivava mentre in Cronaca si stavano spegnendo le luci, si passava il resto della nottata sulla strada. Era sempre emozionante, la notte. Se un fattaccio accadeva di giorno, si dedicavano le ore piccole anche alla pesca dei dettagli per il seguito del pezzo. Ricordo la notte dell’8 febbraio ’80, al freddo in via Santa Sofia, dove in una ditta di mangimi un uomo teneva in ostaggio una decina d’impiegati (dopo averne uccisi due, si mise la pistola alla tempia) La notte del 29 settembre ’84 fu arrestato Angelo Epaminonda, ma lo sapemmo il mattino dopo. Un’altra notte, all’una, in viale Suzzani nel bagagliaio di una Peugeot vennero trovati incaprettati due trafficanti di eroina. Alle 23.30 del 27 luglio, ’93, la strage di via Palestro. "Il Giorno” impegnò tutti i cronisti: Piero Lotito, Giovanni Basso, Giorgio Guaiti, Nino Gorio, Giulio Giuzzi, Maurizio Acquarone, Paolo Colonnello, Giancarlo Rizza… E dovrei dire delle notti passate nell’attesa del rilascio di un rapito o davanti a una banca con una decina di ostaggi nelle mani di tre banditi. La prossima volta, direttore permettendo.













mercoledì 11 gennaio 2017

Un’intelligenza notevole votata al male




LE SENSAZIONALI IMPRESE

DEGLI ESPERTI DEL BIDONE

 


Edmondo Capecelatro

Dalle cronache emergono imbroglioni

 

che hanno venduto piroscafi e yacht

 

all’insaputa dei legittimi proprietari.

 

A “Mi manda Lubrano”, il programma

 

di Raitrè, il vicequestore oggi in

 

pensione Edmondo Capecelatro,

 

commediografo, scrittore e attore di

 

valore, descrisse l’attività del

 

“collezionista di auto”, che per

 

ingannare i concessionari si

 

presentava come segretario particolare

 

dell’ambasciatore del Senegal.

 

La truffa con l’anello con brillante sostituito con

 

abilità da giocoliere con un altro falso ricordata da un

 

investigatore perspicace e umano: Armando Sales,

             

già ispettore della polizia di Stato.

                                        

I tanti “numeri”del campione delle truffe.





Franco Presicci


I professionisti del bidone perdono il pelo ma non il vizio. Tra l’altro, la specie è più nutrita e varia della fauna della foresta amazzonica. Spulciamo le cronache. Correva l’anno 1956 e una farlocca nobile altoitaliana s’inventò un’associazione poliomielitici con lo scopo di rastrellare denaro a proprio uso e consumo. I carabinieri la smascherarono e recuperarono il malloppo.
Il grande presentatore Febo Conti

Il presentatore Febo Conti, che in televisione vestì i panni di Ridolini, condusse “Chissà chi lo sa”, svolse un’intensa attività in teatro…mi raccontò che da giovane (è deceduto a 86 anni il 16 dicembre del 2012, quattro giorni prima della moglie, che fu una “star”) aveva fatto il poliziotto; e che in tale veste aveva raccolto la denuncia all’apparenza inverosimile di un contadino: “Ho acquistato un tram con tanto di contratto in carta bollata, che testimonia il trapasso di proprietà e quando ho ordinato al conducente di cambiare percorso mi sono sentito rispondere di andare al diavolo”. Fantasia? No, realtà. Nel film “Tototruffa 62”, il principe attore vende la fontana di Trevi a un candido italo-americano; ma al di fuori della finzione cinematografica, nel 1925, un principe della truffa aveva liquidato la Torre Eiffel. L’inventiva di questi “specialisti” non ha limiti. Il compianto Arnaldo Giuliani, indimenticabile cronista di razza de “il Corriere della Sera”, ricordava quel genio del garbuglio che, spacciandosi per colonnello dell’Aeronautica, riuscì a sbolognare per 400 milioni in contanti la corazzata Giulio Cesare ad alcuni notabili, esibendo credenziali truccate. Non da meno un suo… collega, partenopeo purosangue “un po’ guappo, un po’ poeta, un po’ guitto”, che aveva attestato il suo “pedigree” nel 1935, affibbiando ad Achille Starace uno “yacht”, che naturalmente apparteneva ad altri.

Presicci (alle spalle il Gen. Matteo Rabiti) con Arnaldo Giuliani
Durante il conflitto mondiale si finse maharajàh di Bandalajar, territorio non contemplato nelle carte geografiche dell’India, perchè inesistente, e succhiò molti soldi a una federazione provinciale del regime per una serie di conferenze sulla schiavitù di quel popolo fantasma. Smise l’abito del sovrano e assunse il ruolo di armatore, rifilando ad alcuni imprenditori elvetici, carico compreso, un piroscafo ancorato nel porto di Genova. Si dette alla bella vita in una famosa località di villeggiatura oltreconfine; tornò nel nostro Paese, “giobbò” il titolare di due Tir colmi di ceramiche, merce che rivendette ad un prezzo superiore a quello dovuto. Nonostante le sue doti di pataccaro, ebbe slanci di generosità: rinchiuso a San Vittore, raccolse fra i detenuti una somma da destinare ad una bambina gravemente ammalata, ricevendo il premio “Notte di Natale”. Si proclamò pentito e fece domanda alla trasmissione televisiva di Mike Bongiorno, “Lascia o raddoppia?”, esibendo una familiarità con il codice penale.

Armando Sales

Edmondo Capecelatro, che si è dimesso dalla polizia con il grado di vicequestore per dedicarsi all’attività di avvocato e di scrittore (è autore di libri di notevole livello: “La storia di una città attraverso la storia della sua cucina”; “Le Ragioni di Lucia”…e di testi teatrali che ha rappresentato al San Babila, anche nei panni di interprete), rispolverò la figura di un “collezionista di auto di lusso” che in anni più recenti “soffiava” direttamente presso le concessionarie, perché le voleva vergini. Si diceva segretario particolare dell’ambasciatore di uno Stato africano, sceglieva la vettura, chiedeva di fare un giro di prova, la riconsegnava dopo aver sottratto una delle chiavi, invitando il venditore a portare il gioiello nel luogo in cui il diplomatico stava svolgendo i suoi compiti. All’appuntamento arrivava puntuale, accompagnava il commerciante fino all’ascensore, gli indicava il piano da raggiungere per incontrare l’acquirente e si assentava con la scusa di dover recuperare delle carte dimenticate nell’abitacolo dell’ammiraglia, e scompariva con l’oggetto del desiderio, che parcheggiava in una zona della città. Per non sciuparlo, non lo usava mai, ma ogni tanto se lo godeva stando seduto al voltante o passandovi la notte. In commissariato gli furono trovate una decina di chiavi, corrispondenti ad altrettanti raggiri. Non abbandonò mai, durante gli interrogatori, i suoi modi eleganti e un’aria divertita. Gli agenti del 1° distretto lo avevano individuato partendo da una vettura in sosta in Foro Bonaparte.

Il capo della Mobile Micalizio, Antonio Lubrano e Franco Presicci
Capecelatro raccontò gli “scartiloffi” di questo personaggio (che non avrebbe certo suscitato, nemmeno per passatempo, l’interesse di Massimo Alberini, esperto di collezionismo trasparente, e del mondo circense) in una puntata del programma televisivo condotto da Antonio Lubrano, al quale io stesso collaboravo. Una trasmissione seguitissima che dopo un paio d’anni cambiò titolo in “Mi manda Raitrè”, guidata prima da Piero Marrazzo e poi da Andrea Vianello.
In una puntata di “Fuori orario”, sempre sulla terza rete, autori Ghezzi e Sanguinetti, presentatore Davide Riondino, illustrai la cosiddetta truffa all’americana, che anche a Milano ha fatto decine e decine di vittime. Un individuo fermava una donna anziana per strada e le sollecitava notizie di un medico che avendo salvato durante la guerra la vita al proprio padre, voleva donargli 50 milioni, contenuti a suo dire in una valigia che portava con sè. “Dovrebbe abitare da queste parti”. Interveniva un complice, che giurava di conoscerlo. “Ha lo studio proprio a due isolati da qui”. Si dirigevano all’indirizzo indicato, il complice entrava e dopo pochi minuti usciva riferendo che il medico si era trasferito; il possessore dell’ingombro, fingendo di avere fretta di ripartire, pregava la donna di prendersi l’incarico della consegna, dando però in cambio, a mo’ di garanzia, il denaro o i gioielli che possedeva.
Il Maresciallo Ferdinando Oscuri a destra
E apriva la valigia per far vedere che il tesoro c’era davvero. Se il “dannato” (la vittima) accettava, scattava la seconda fase: “Andiamo a casa sua con la Mercedes, preleviamo, quindi passiamo dal tabaccaio ad acquistare la carta da bollo per consacrare il patto”. Quindi incaricavano la stessa malcapitata (o uomo che fosse) di andare nell’esercizio. All’uscita, la delusione: il duetto si era volatilizzato. Non solo “Fuori orario”, ma anche i quotidiani davano puntualmente risalto alla “truffa all’americana” per esortare i vecchietti a stare all’erta e a non farsi infinocchiare. Ma i birilli continuavano a cadere. E i commissariati, la questura, le caserme dei carabinieri raccoglievano rabbia e pianto. E qualche volta il manipolatore rimaneva imbrigliato nella trappola, quella tesa dagli investigatori.

Il Questore Vito Plantone


L’ispettore di polizia, oggi in pensione, Armando Sales, evoca la truffa con l’anello d’oro con brillante che come in un gioco di prestigio al momento opportuno veniva sostituito con uno falso. Il bidonista, rivolgendosi a un passante: “Signore, le è caduto questo anello”. “Non è mio”. “Allora è il nostro, visto che non c’è il proprietario ed è ‘res nullius’. E’ bello, guardi, è d’oro con brillante. Facciamolo valutare e dividiamo a metà”. Un orefice dava il responso: valore 5 milioni” (era il tempo delle lire: n.d.a.). La volpe consegnava la copia artefatta del cerchietto prezioso e si eclissava. Razza di furfanti. Hanno audacia, sfrontatezza, intelligenza elevata votata al male, notevole capacità di persuasione, sangue freddo, intuizioni geniali, una buona conoscenza dell’animo umano, e come complice l’ingenuità, la disperazione, la fragilità del destinatario, la sua attenzione bassa. Le loro imprese (“vaporeto”, “forciolina”, “sola”, “bicchio”… nel gergo della mala) non si contano: sono in agguato in ogni settore. Ogni periodo storico ha avuto i suoi “architetti” dell’inganno, ispiratori anche del cinema e della letteratura. Ne pescarono anche il questore Vito Plantone, soprattutto da giovane commissario, e il maresciallo Ferdinando Oscuri. Oltre a Capecelatro e a Sales.





mercoledì 4 gennaio 2017

In via Tobagi 8, dove c’erano soltanto boschi



LA FORNACE CURTI, ALLA BARONA

CUSTODISCE UN PEZZO DI MILANO




Alberto Curti
 

Sorta nel 1428, eseguì i cotti per la costruzione della      Ca’ Granda, l’ospedale Maggiore, voluto da Bianca Maria Visconti, moglie del duca della città, Francesco Sforza.

 

 

 

Il progetto dell’opera fu del Filarete (Antonio Averulino).

 

 

 

Alberto Curti, che vive da ragazzo in questa “bottega” storica, continua la prestigiosa attività con vero amore.

 

 

                                                                                                 



Franco Presicci

L'ingresso della Fornace Curti
La rivoluzione urbanistica a Milano ha risparmiato qualche scampolo di borgo antico. Piazza Belloveso, per esempio, dove sfocia la via Passerini con la sua bella cascina reintegrata che ospita il comando dei vigili urbani e una sede decentrata del Comune. Se, fiancheggiando il Naviglio Grande, si supera, sul lato destro, la chiesa di San Cristoforo, dirimpetto al ponte di ferro che scavalca il canale, si raggiunge la Barona e s’incontrano case annose, piccole chiese, sopravvivenze rurali… ancora intatte. A poca distanza dal tempio dedicato a Santa Rita, che accolse il capo della squadra Mobile Zamparelli, devoto della protettrice delle donne desiderose di maternità, dei salumieri…, e gli investigatori della sezione antirapine dopo l’arresto della banda autrice dell’assalto a un furgone portavalori in via Osoppo (il 27 febbraio del ’58).
Alberto Curti
Ed ecco via San Giuseppe Cottolengo 40, già vicolo alla Fornace, che dal 1428 ha sfornato i cocci più belli del capoluogo lombardo. Oggi alla Fornace Curti si entra da viale Walter Tobagi 8, arteria molto frequentata un tempo zona boschiva; e subito, sollevando lo sguardo verso un’altana di fronte, troneggiano i busti, enormi, di Benedetto Croce e di Leonardo da Vinci
(giunto a Milano nel 1482), che sembrano vigilare come gendarmi. La Fornace Curti, sempre in attività, è lì da oltre 100 anni, ma sorse nei pressi delle Colonne di San Lorenzo, “el Canton di Verz”, sul Naviglio oggi coperto da via De Amicis. Alberto, che ha ereditato il complesso e lo ha migliorato, ridando forza e bellezza alle parti che più delle altre sentivano il peso degli anni, si dà un gran da fare per rinnovare la produzione. Tempo addietro ha fatto costruire un capannone per accogliere eventi di alto livello, soprattutto per far conoscere l’arte della ceramica e le svariate forme che la fantasia, l’abilità, l’esperienza riescono a creare.
In alto, Benedetto Croce
Gigi Pedroli alla Fornace Curti
A questo scopo guida i visitatori, descrivendo anche le funzioni delle macchine in voga nel passato e ora parcheggiate in vari locali, fra stemmi, medaglioni, mensole, putti, fregi, vasi per fiori e alberi, comignoli, mattoni in cotto che servirono per la costruzione di opere grandissime: la Ca’ Granda, la Certosa di Pavia, l’Arcivescovado, l’Abazia di Morimondo, Santa Maria delle Grazie, il Castello Sforzesco, il Duomo di Monza, la cattedrale di Zeme Lomellina…, e “poi per le ristrutturazioni degli stessi avviate negli anni 70”. Inoltre illustra gli stampi degli elementi originali gelosamente conservati; il luogo di estrazione dell’argilla padana (una volta nella zona dell’attuale quartiere Sant’Ambrogio e oggi nell’Oltrepò Pavese). Uomo di poche parole, discreto, colto, intelligente, prova piacere a parlare del rapporto dell’uomo con l’argilla, ovunque presente nella nostra vita quotidiana; e degli architetti, degli scultori che negli anni hanno frequentato la Fornace: Manzù, Messina, Minguzzi, Pomodoro, Lucio Fontana…E indica gli artisti di oggi, tra cui Burnett, Gigi Pedroli, acquafortista di grande talento e titolare di un altro studio, confortevole e ricco d’atmosfera, in un ambiente storico sull’alzaia Naviglio Grande. 
Alberto mette a disposizione degli ospiti tutta la sua competenza. Affascina anche quando spiega gli aspetti tecnici mostrando il lavoro in corso; la qualità della creta lombarda, la storia della Fornace, partendo da quando, su progetto del Filarete (Antonio Averulino) si iniziò a edificare l’Ospedale Maggiore, la Ca’ Granda, per decisione di Bianca Maria Visconti, consorte di Francesco Sforza, duca di Milano.
Una storia gloriosa, quella della Fornace, che proprio in occasione della realizzazione dell’opera appena citata e di altre, ricevette l’incarico di eseguire buona parte delle formelle e dei mattoni sagomati dal Solari e dal Guiniforte. Allora lo scettro della Fornace era nelle mani di Giosuè Curti, nobile al seguito della famiglia Sforza. Nello stesso tempo, lo scultore delle formelle della Certosa di Pavia fece cuocere alla Fornace i suoi fregi architettonici.
Angolo della Fornace Curti
Cortile della Fornace Curti
Nel 1700 la fabbrica si trasferì sulla Ripa di Porta Ticinese e nel secolo successivo alla Conchetta sul Naviglio Pavese, dove insisteva la Cascina Pragarella. Questa sarebbe stata probabilmente la sede definitiva, se non vi si fosse scatenato un incendio, che distrusse medaglioni, rosoni, festoni…, divorando anche importanti documenti riguardanti la stirpe dei Curti. “Siamo in questa struttura dal 1921 – chiosa Alberto, che continua la tradizione con passione e orgoglio – quando portava ancora il nome di Cascina Varesinetta alle Rottole di San Cristoforo e confinava con un’altra cascina, la Varesinetta, demolita qualche anno fa. La Fornace non ha mai abbandonato la zona Ticinese, così ricca di fascino”. E quel Benedetto Croce, che non appare spaesato anche se così lontano dalla sua terra, ma ha anzi un’espressione da nume tutelare di questo regno della terracotta? “E’ un’opera di Stoppani. Risale circa al ’57. Era destinato alla Biblioteca o all’Università di Napoli. Sorsero delle incomprensioni fra quelle istituzioni e il filosofo è rimasto lì, assieme a Leonardo da Vinci”. Completa, approfondisce le informazioni la moglie di Alberto, Daria, che delle vicende dell’antichissima Fornace conosce ogni particolare.
La Fornace Curti
Sono più di trent’anni che bazzico la Fornace Curti. Ho visitato i laboratori dei 30 artisti che dipingevano quadri e modellavano la creta: Gigi Pedroli, tra l’altro squisito cantautore, che si ispira a luoghi e personaggi milanesi (“El pitur”, “El barun”, “La gent la diceva”, “La mundina”, “Vegia osteria”…); Giuliana Consilvio (trasferitasi in uno studio di sua proprietà), Burnett, Carlarotta, il cinese Ka Zu-maza ed altri, che possono mostrare le loro tele e le loro ceramiche non soltanto tutti i giorni, ma anche il sabato e la domenica, a maggio, mese in cui la Fornace è aperta tutto il giorno ed è affollata di persone interessate ad apprendere anche il lunghissimo racconto di Milano, a contemplare vasi da giardino piccoli e grandi, tutti finemente lavorati, anfore e stampi antichi appesi alle pareti. Sono giorni di festa anche per i ragazzi che non hanno mai visto un ceramista dare forma all’argilla, lisciandola, accarezzandola.Una sorta di magia, un incanto, uno spettacolo, che si ripetono da secoli. “Negli ultimi anni abbiamo rispolverato i modelli antichi (acroteri, fregi…) e abbiamo cercato di ripristinare il gusto del cotto, che era andato scemando”. Parola di Curti Alberto, basso, calvo, spiritoso, ospitale. In quella specie di piazza d’armi, che è il cortile della Fornace, un giorno ci fermammo a conversare con il compianto Luciano Visintin, già direttore de “Il Corriere dei Piccoli”, giornalista de “Il Corriere della Sera”, autore di libri su Milano. Anche Luciano (scomparso da tempo, come Sarik, Riccardo Saladin, uno degli artisti della Fornace) era un ammiratore di questo luogo. Gli piaceva osservare dalla terrazza la fuga di tetti tirati a lucido, i portici, i meandri e la scala a chiocciola che porta agli studi, di gusto parigino, di pittori, fotografi, architetti, artigiani intagliatori del legno… Per accedervi bisogna fare lo “slalom” tra migliaia di pezzi, compresi vasellame d’arte, statue, fontane destinate ad adornare le tavolozze botaniche degli inaccessibili cortili milanesi. C’è pace, silenzio, in questa fucina, dove continua a dare i suoi frutti l’amore per un’arte antichissima: la ceramica, le cui prime testimonianze risalgono al 6.500 circa a. Cristo.