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martedì 21 febbraio 2017

Il gergo della “mala”





LA MARMOTTA? LA CASSAFORTE

 

Se qualcuno pensava al roditore si sbagliava.

 

 

"Ladro in fuga" - disegno di Franco Presicci

Il “canarino” non è

 

il bell’uccellino che gorgheggia

 

in gabbia, ma il ruffiano, la spia.

 

La “quaglia” e “la fisarmonica”

 

il portafoglio. E “camporella”?

 

L’uscita dal carcere: la libertà.

 










Franco Presicci


Non so se i malavitosi milanesi, e quelli del resto della Penisola, parlino ancora il gergo della categoria. Se cioè dicano ancora “broccolare” per giocare d’azzardo; “bella” per fuga; “ciappone” per coltello; “bevuto” per arrestato; “stirato” per ucciso o squattrinato; “smorfire” per mangiare; “viole” per soldi...

L'orologio di San Vittore

Circa una trentina di anni fa, una notte di maggio calda e tranquilla in cui ero di turno in Cronaca, al “Il Giorno”, andai a bere un “bitter” nel bar aperto a pochi metri dal giornale; e, stando sulla soglia, ascoltai una conversazione, che si snodava sull’altro lato della strada, quasi sotto il lampione, fra una sorta di orso bruno attempato e un piccoletto grifagno che lo ascoltava come il discepolo il maestro. Il primo, che avevo già incrociato fra due divise in questura, nel lungo corridoio che dal cortile porta agli uffici della squadra Mobile, diceva di essere appena uscito dal “due” (il carcere di San Vittore, che si trova a quel numero di piazza Filangieri) e di non avere ancora pensato a “sfangarsi” (realizzare un’impresa).
E accennava alla propria “carriera”, sostenendo di essere una volpe, tanto da essere riuscito, a suo tempo, a “far caporetto” (fuggire) dalla Legione Straniera. Rientrato in Italia, era stato “pizzicato” (liberato), nuovamente “imballato” (ripreso in flagranza), rimesso in “casanza” (galera), “steccato” (condannato) per l’ennesima volta. Con voce cavernosa si vantava di avere conoscenze, non fra i “dilittanti”, nella società criminale e di essere un estimatore del capo del clan dei catanesi, Angelo Epaminonda, detto “il tebano”, che considerava un “manager”, un “er più”, termine copiato dal Belli. Era ricco, il suo lessico: “spisusu” (uomo ricco), “vicaria” (carcere), “gran finale” (resa dei conti), “ciummari” (sgraffignare), “spamare” (scoprire), “smalloppare” (andarsene)…, una mescolanza di voci di varie regioni.
di Roberto Baldasarre "Lo sbandato"
Dino Donati, in permesso-premio, venne a trovarmi al giornale il 2 novembre del ’79, per farmi dono del suo libro. “Lo sbandato”, scritto in cella nel carcere di Opera. Attese un bel po’ nel salottino, a causa di un tragico avvenimento (la strage di Moncucco, 8 morti ammazzati, di cui 7 perché testimoni), che teneva in fibrillazione i telefoni. Trovai un varco e lo ascoltai. Dopo pochi giorni lessi quelle pagine: una biografia fatta di “spaccate” (furto compiuto mandando in frantumi le vetrine dei negozi), arresti, traduzioni da un casa di reclusione ad un’altra, sofferenze, riflessioni…Un racconto dallo stile semplice e schietto, illustrato da Roberto Baldasarre e qua e là cosparso di parole come “balin” (branda della cella); “boia” (spia della polizia); “ciocco” (allarme); “cricca” (valigia); “spicciola” (bicicletta); “zanza” (imbroglione); “marmotta” (cassaforte a muro); “quaglia” (portafoglio); “rebonza” (refurtiva)…
 disegno di Franco Presicci
Anche in “Tango con sinuose movenze”, storie “di una Milano che è stata e di una Milano che è oggi”, pubblicato da Bruno Brancher nel 1997, ritrovai diverse voci di questa parlata. E ho anche apprezzato il contenuto del volume di questo “picaro di una straordinaria Milano leggendaria – parole di Oreste Del Buono -, passato attraverso ogni disavventura, sviste giudiziarie, carceri, follie, manicomi, più volte sceso agli inferi e più volte riemerso a forza di senso”. Brancher si fa seguire con attenzione e interesse: “… A Milano è tornato in auge il furto delle biciclette.
Il mio vecchio amico e compare … non demorde dalla sua antica professione di ladro di biciclette. Anch’io rubavo biciclette, ma ero giovane e inesperto. Infatti crescendo mi sono dato ad altre ruberie. Ricordo quando… fu preso da grande invidia nei miei confronti perché io riuscii in una clamorosa impresa: fregare la bicicletta del grande Fausto Coppi... Ma come oggi fa notare un altro grande, Umberto Eco (di cui sono ammiratore) in quel mestiere non dovevo essere bravo. Infatti mi beccavano sempre…”. L’autore precisa che l’amico era “lader de vòla, de “spiciùl” fin dal lontano anno 1945…”: “Vola” è il troncamento di volante (la squadra di pronto intervento della polizia) e “spiciùl” sta per spicciola, (due ruote), parola in uso non soltanto in Lombardia, ma anche in Veneto, Emilia e Toscana. “Par na spicioli te risci due barète” (per un velocipede corri il rischio di due anni di galera). A Palermo nell’ultimo dopoguerra a spaventare la piccola criminalità era la “lupa”, la “jeep” della “Military Police”. A Milano ai primi del ‘900 era “el Dondina”, un poliziotto severo, onesto e infaticabile, dal fiuto finissimo, terrore di teppa e “ligera” (i primi in origine buontemponi burloni e in seguito malavitosi di un certo calibro; i secondi giovani che sfioravano il codice penale.
Mario Castellani in Inscì parla la "mala"
I contrabbandieri dicono ancora “burlanda” o “sicura” per indicare la Dogana? E a Torino biliard”, tavolaccio in camera di sicurezza? E a Bologna “a vag a fer ‘na rapa”: una rapina, come si legge in “Gergo della malavita”, edito nel ’69 dal Ministero dell’Interno? E a Reggio Calabria va ancora di moda “’ncavallatu”¸ armato? A Palermo “omo di panza”? A Milano “zanzata”, roba truffata; “piove” per mettere in guardia i compari dall’arrivo della “pula”, la polizia …? Certo è che in terra meneghina sono ormai in pochi quelli che sanno del “bosch de la Merlada, antico luogo a nord della città un tempo abitato da briganti, il più famoso dei quali Giacomo Legorino, “magnà”, acciuffato, nel lontanissimo 1566. Stando a Giovanni Luzzi, sapido intenditore della materia (è suo “Inscì parla la ‘mala’”, edito dalla Libreria Meravigli), il gergo di cui parlo non è completamente caduto in disuso. Sopravvivono dunque “bava”, canaglia, derivato da Bava Beccaris, il generale che ordinò le cannonate del maggio del 1898; “canarino”, ruffiano, spia, delatore; e “cascettone”, in voga con lo stesso valore nel dialetto tarantino di una volta; “camporella”, che ha una doppia traduzione: il luogo isolato in cui gli innamorati si appartano per scambiarsi carezze e l’uscita dal carcere. Nel capoluogo lombardo in alcune cronache compare “cravattaro” per riferirsi allo strozzino e al ricettatore; ma nella “mala” forse nessuno più dice “cocumia” per Meridione e “maraman” per uomo del Sud.
di R. Baldasarre ne "Lo sbandato"
Non rintracciai espressioni gergali nel libro di Luciano Lutring, “Il solista del mitra”, titolo ispirato al nomignolo affibbiato negli anni Sessanta dal capocronista de “Il Corriere della Sera” Antonio Di Bella al personaggio diventato in carcere pittore e uomo onesto: nell’androne di uno stabile dal quale si vociferava fosse passato Lutring, venne rinvenuta la custodia di un violino, e la circostanza accese la fantasia del futuro direttore del quotidiano di via Solferino. Per inciso, in quel libro l’autore abbozza il ritratto del maresciallo Ferdinando Oscuri, “cintura nera di judo e terrore della malavita milanese. Il maresciallo era un uomo alto un metro e ottanta circa con capelli lisci castani tirati indietro, aveva uno sguardo duro, tanti davanti a lui tremavano, solo che lui li guardava in faccia e fu lui con i suoi superiori che eliminarono tante bande nel 1945 alla fine della guerra, e fu lui che tolse di mezzo i miei cugini…e le loro bande”… Compresa – aggiungo - quella di un bandito detto gentiluomo… (dava la mancia ai cassieri delle banche che rapinava), claudicante come “el Dondina”. Ma definisce “cok” il ricettatore; e la banda “gang”, voce appartenente al linguaggio mafioso italo-statunitense.
Uno dei cancelli del carcere
Paolo Valera, giornalista e scrittore, frequentatore degli ambienti degli Scapigliati milanesi, autore del romanzo “La folla”, elogiato da Emile Zola, soffermandosi in “Milano sconosciuta” sulla locanda del Berrini, che tra le seicento aperte a Milano nel 1874 “era la più famigerata” (tra l’altro – afferma – “vi si sono coricati quasi tutti gli inquilini che popolavano alternativamente la Polla”, carcere di via Santa Margherita demolito nel 1888), dice “sveglia”: sorveglianza della polizia; “piè”: soldi; “introibo”: porta d’ingresso; “bombola” o “bugliolo”: a suo tempo una vergogna che nelle celle prendeva il posto del cesso…. E anche nel capitolo in cui delinea l’irreprensibile, esemplare figura del Dondina, da lui definito “il Vidocq milanese dei locch” per l’attività svolta da colui che dopo essere stato tra l’altro il re delle evasioni creò e per un certo periodo guidò la gendarmeria francese, usa “fondeur” per borsaioli, “stecch”, per coltello, “goga”, per buffetto, “stacchett” per borsellino… Paolo Valera, nato a Como nel 1850, morì a Milano nel ’26, epoca in cui quel linguaggio pittoresco era la norma nella giungla della malandra.

















mercoledì 15 febbraio 2017

Verrà abbattuta la vecchia sede de “Il Giorno”



C O M ' E R A . . .














             S E D E  S T O R I C A  D E L  Q U O T I D I A N O                                                                            "I L   G I O R N O"










 

    .  .  . C O M' E'  



UN MONUMENTO ESEMPLARE

DEL GIORNALISMO ITALIANO

 



L’esecuzione, prevista per il 12 febbraio,

 

è stata rinviata. Chi ci ha lavorato giura

 

che non assisterà all’azione delle ruspe.

 

Sotto le macerie non verranno sepolte

 

tante pagine di storia.

 







Franco Presicci



L’”ecomostro” sta per essere raso al suolo. L’esecuzione era prevista per il 12 febbraio, ma per qualche ragione è stata rimandata. E’ certo che prima o poi la ruspa arriverà e con i suoi dentacci d’acciaio compirà l’opera.
Prima pagina del Giorno del 16 aprile '86
A liquidare con quella brutta parola l’edificio in agonia è stato un giornale degno di rispetto, di solito attento e misurato. Ma questa volta non ha considerato che quella era la vecchia sede di un quotidiano glorioso, “Il Giorno”, sede storica, e quindi meritevole di un po’ di rispetto. Come ha potuto l’autore dell’articolo essere così cinico da usare un termine più adatto a funghi di cemento armato che altrove sfregiano il paesaggio? Certo, visto com’è ridotto dopo tanti anni di abbandono non ha più un bell’aspetto, ma definirlo ecomostro mi pare un colpo al cuore di tutti quelli che vi hanno lavorato. E quando l’ultima firma verrà apposta sul via libera alla sentenza, verrà cancellata un’immagine esemplare del giornalismo italiano. Qualcuno ha detto che non andrà a vederlo mentre viene azzannato e fatto a pezzi, per poter continuare a credere che l’edificio di via Angelo Fava 6 sia ancora in piedi. E ogni tanto ricorderà la finestra da cui si affacciava per osservare il treno che correva verso la stazione Centrale o quella specie di dopolavoro in mezzo al prato, di fronte, a pochi metri, dove qualche volta impiegati, operai e giornalisti, uscendo all’una del mattino, anziché rientrare subito a casa, andavano a giocare al biliardo fino alle 5 del mattino dopo l’ultima forchettata di spaghetti preparati dal gestore.
La Cronaca - Presicci tra i colleghi della Redazione
Innumerevoli i ricordi. Si susseguono, si sovrappongono. Di fatti, ore frebbrili, trilli di telefoni. Di nomi eccellenti: Gianni Brera, principe dello sport raccontato e inventore di un linguaggio; Pietrino Bianchi, autorevole critico cinematografico e dopo di lui Morando Morandini; Marco Valsecchi, aristarco dell’arte; Giuliano Gramigna della letteratura; Giulio Confalonieri della musica; Pilade Del Buono esperto di boxe e non solo; Roberto De Monticelli di teatro; Mario Fossati di ciclismo; Pier Maria Paoletti, tra l’altro elegante commentatore di opere liriche; Giulio Confalonieri, mostro sacro, autorevole investigatore musicale, che assisteva alle prime non dalla platea ma dal loggione (ci ha lasciato anche un bellissimo libro, “I barboni a Milano”, e una voluminosa storia della musica). E ancora: Mario Zoppelli, che fu anche corrispondente da Mosca; Bernardo Valli, apprezzatissimo inviato estero; Ettore Masina, bravissimo vaticanista; Aldo Bernacchi…I vicedirettori, da Angelo Rozzoni, un mito, a Ugo Ronfani, a Guido Gerosa; e Paolo Murialdi, caporedattore centrale, autore anche di una storia del giornalismo italiano; Maurizio Chierici, profondo conoscitore dell’America Latina; Alfonso Madeo… E i direttori? Gaetano Baldacci, Italo Pietra, Gaetano Afeltra, Lino Rizzi, Guglielmo Zucconi.
Riunione di Redazione
Tra i cronisti doc, Patrizio Fusar, Giancarlo Rizza, Maurizio Acquarone, Tanino Gadda, Franco Abruzzo, che si trasferirà a “Il Sole” e diventerà presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardi (vanta “scoop” memorabili); e Natalia Aspesi, trasmigrata a “Repubblica”… Nell’albo d’oro del “Giorno” anche Giancarlo Fusco, giornalista e scrittore (“Le rose del ventennio”, “Quando l’Italia tollerava”…), Vittorio Emiliani, che andrà poi a dirigere “Il Messaggero”; Manlio Mariani; Leonardo Valente (poi primo direttore di “Avvenire”); Enzo Forcella; Alfredo Barberis; Nicola Cattedra; Romeo Giovannini, un toscano dalla parola a volte caustica e sempre schietta, che oltre ad essere un titolista efficace e originale, aveva tradotto i classici latini; Guido Nozzoli; Ermanno Rea, nel 2008 finalista al Premio Strega con “Napoli ferrovia”; nel ’96 Premio Viareggio con “Mistero napoletano”; Premio Campiello nel ’99 con “Fuochi fiammanti a un’ora di notte”, e autore de “La dismissione”, “Il Po racconta”... E non vanno dimenticati quelli venuti in anni più recenti: il capocronista Enzo Catania, che nel ’79 prese il posto di Enzo Macrì, che a sua volta aveva ereditato la poltrona da Giorgio Susini e da Franco Nasi; Nino Gorio, che vinse il premio “Cronista dell’anno” a Senigallia per la scoperta in Francia di un quadro rubato in Italia; Alberto Delfino, a cui si deve “Un libro da 100 tonnellate” sulle vie di Milano.

Un tipografo impegnato nell'impaginazione
Famosi e molto seguiti gli inserti ”Giorno Donna”, curato dalla collega Cornelli; il “Giorno-motori” da Nicola Cattedra; il “Giorno-ragazzi” con le vignette di Jacovitti, al quale era legato il trenino sempre affollato che circolava nei giardini di via Palestro con il titolo dell’inserto. Molto lette le rubriche di Luigi Veronelli, il poeta del vino che illustrava le sue ricette; e i racconti surreali di Mario Soldati… Oggi sono oggetto di collezione i numeri del rotocalco accoppiato al “Giorno”, con gli articoli di un principe del giornalismo: Tommaso Besozzi, che raccontò mirabilmente la dinamica della morte di Salvatore Giuliano; le memorie della duchessa di Windsor, i saggi storici di Winston Curchill, collocati tra grandi fotografie anche a colori. Insomma, “Il Giorno” – ha scritto Vittorio Emiliani – fu “per noi un’alba luminosa”. Come indica anche il manifesto di Savignac. Via Fava: un sogno tramontato. Per andare dalle redazioni al bar, aperto al pianoterreno, si attraversava un lungo corridoio: una sorta di “promenade” che consentiva la vista della rotativa, gigantesca, che, girando a grande velocità, sfornava migliaia di copie al minuto, trasportandole con un catena aerea fino ai banchi dei distributori. A mezzanotte nel piazzale a ridosso della ribalta erano già parcheggiati i camion, pronti per caricare la prima edizione.
Il Giorno 20 luglio '69
A quell’ora si lavorava a ranghi ridotti. Soprattutto in Cronaca, che era al quarto piano, come le redazioni di Lombardia e Provincia. Sullo stesso piano c’era anche la redazione che confezionava il telegiornale di Antennatrè, la grande televisione guidata da Enzo Tortora. Il capo era Aldo Catalani, il vice Giangaspare Basile. Gli Spettacoli, al vertice Giulio Cisco, erano al quinto. La direzione e la segreteria di redazione al secondo; l’Economia e Finanza al terzo. “Il Giorno”, prima uscita il 21 aprile del ’56, era una testata innovativa: frequenti inchieste, di Bocca, della Aspesi, di Giampaolo Pansa…; freschezza e brevità delle notizie; scomparsa della terza pagina; la “Situazione”, anziché l’articolo di fondo; otto colonne, la pagina di giochi e fumetti; le prime righe degli articoli in neretto; un’edizione del pomeriggio; il telefono nelle edicole pronto a squillare appena le copie si esaurivano; la cronaca senza firme, la prima pagina-vetrina...L’edificio, otto piani, cominciava ad animarsi verso le 10 del mattino; ma qualche cronista arrivava alle 8, e a volte anche alle 7, per lasciare il giornale anche alle 22. Si faticava con entusiasmo, con gioia, con l’orgoglio di appartenere a una testata il cui primo numero venne salutato ovunque. “Nesweek” titolò “The Upstart in Milan”; il “Times”: “Rottura con la tradizione”; l’”Espresso” “Spunta il giorno”…. Facemmo fagotto nel 1985, diretti in piazza Cavour, nel Palazzo dell’Informazione, “irto di marmi, mosaici, sculture e bassorilievi di Sironi e generoso di spazi monumentali (Guido Vergani: n.d.a. ), dove Mussolini, nel ’42, trasferì da via Lovanio la sede del “Popolo d’Italia”. Di fianco i giardini di via Palestro; di fronte, via Turati. Nella nuova casa cambiò la tecnica: al piombò si sostituì il procedimento fotografico. Ma pur lavorando in quella sede importante, progettata dall’architetto Giovanni Muzio, a due passi dal Teatro Manzoni, dalla Scala, da Palazzo Marini, dal Museo Poldi-Pezzoli, da via della Spiga, dall’hotel in cui visse gli ultimi momenti Giuseppe Verdi, il pensiero correva spesso a via Fava, tra le vie del Progresso e della Giustizia. Adesso quel monumento, quel contenitore di storia, uno scrigno, sta per essere smantellato. E’ vero, da tempo è in pessimo stato, ma sentirlo bollare come ecomostro fa proprio male al cuore.









mercoledì 8 febbraio 2017

In onda prossimamente sull’ammiraglia della Rai





NELLO SCENEGGIATO “STUDIO UNO”

 

RISORGE IL COREOGRAFO DON LURIO
Parte del pubblico a Prospettive d'Arte-Primo a sinistra: Franco Presicci, al centro in prima fila il questore Carluccio


 

 

 

           

Fu lui a creare il “Dadaumpa”. Era anche pittore.

 

Nel marzo del ‘99 espose a Milano, nella galleria

 

“Prospettive d’arte” di Mimmo Dabbrescia (nato

 

a Barletta), che continua a dare tantissimo per la

 

diffusione delle opere dei maggiori artisti di oggi.








Franco Presicci


A quanto pare la Rai con una “fiction” ha riesumato “Studio Uno”, il programma che ebbe nel “cast”, con Mina, Luciano Salce, Paolo Panelli, Rita Pavone, Walter Chiari, le gemelle Kessler…, il coreografo, ballerino, “showman” americano Don Lurio.
Una buona occasione per ricordare un incontro con lui, nel marzo del 1999, nella galleria “Prospettive d’arte” di uno dei pugliesi illustri che risponde al nome di Mimmo Dabbrescia, di Barletta. Avevo già intervistato per telefono, grazie sempre a Dabbrescia, la “star”, mentre si trovava a Sanremo per partecipare al festival come “spalla” di Fabio Fazio”. “Non possiamo conversare in Galleria, dove, come sai, sta per essere inaugurata una mia mostra di quadri?”, mi aveva proposto. “Lo faremo dopo, ma oggi al ‘Giorno’ ti è stata riservata quasi una pagina”. Ed ecco aprirsi un capitolo della sua biografia, verosimilmente nota a pochi. “Fu la mia insegnante delle elementari a incoraggiarmi nella pittura. Aveva intuito la mia vocazione e mi consigliò di sostenere l’esame di ammissione alla High school of music and art di Harlem.
Ma non era facile arrivare a quelle aule, dove soltanto 50 ragazzi su mille ci riuscivano. E fu la stessa maestra a tranquillizzare i miei genitori, preoccupati per il fatto che io ancora bambino dovessi percorrere le strade piene di pericoli di quel quartiere di Manhattan. Per maggiore sicurezza mi scortò sempre un poliziotto. Così frequentai quell’istituto per quattro anni…”.

Ritrovai Don Lurio in galleria; visitai l’esposizione, in compagnia di Dabbrescia, persona discreta, cortese, parca di parole, e del fotografo Gaetano Montingelli, che è di Cerignola. Quella sera il coreografo non stava tanto bene, e Mimmo gli suggerì d’indossare il cappotto, perchè la sua poteva essere influenza. Ma era un malessere più serio, tanto che venne ricoverato all’Umanitaria e vi rimase un paio di giorni. E’ lì che Mimmo lo rintracciò dopo averlo cercato in diversi posti. Con Don Lurio, pseudonimo di Donald Benjamin Lurio, nato a New York nel ’33, era piacevole dialogare. Sottile, sguardo penetrante, agile ed elegante come un gatto, espressione birichina, sibilò: “Tu sei furbo e mi vuoi fregare”. Poi si accorse che non era vero e mi regalò con dedica una litografia raffigurante tre giocatori con le carte in mano, mentre osservavo una “Donna su un divano rosso”, un “Matinèe al Sistina”, ballerine, sedie impagliate…: acrilici su tela. “Per tanti anni ho dipinto senza poter mai esporre, preso com’ero dal balletto, dalla coreografia”. Pittura e danza sono in antitesi? “No. In fondo il palcoscenico è una tela bianca, dove i ballerini sono i colori in movimento. Protagonista è lo spazio”. E confessò il rimorso per aver dedicato poco tempo alla tavolozza, che impugnava quando poteva. Era arrivato in Italia nel ’57, cominciando un percorso destinato al successo. Debuttò in uno “show” televisivo intitolato “Crociera d’estate”; nel ’59, prese parte a “Canzonissima” di Garinei e Giovannini, con Delia Scala, Paolo Panelli, Nino Manfredi; due anni dopo principe in uno spettacolo con il Quartetto Cetra e la regia di Antonello Falqui; “Studio Uno”, per il quale tra l’altro creò la coreografia del “Dadaumpa”. Una carriera teatrale e televisiva sfolgorante.

Giorgio De Chirico (Dabbrescia)
Lucio Dalla (foto Dabbrescia)

Ne parlavo giorni fa con Mimmo Dabbrescia, che conosco da 40 anni. Uomo e professionista serio, preciso, limpido, stimato; nato nel ’38 a Barletta, città ricca di sopravvivenze antiche e di chiese in stile romanico-pugliese, arrivò a Milano immagino con la macchina fotografica a tracolla. Vero maestro dell’obiettivo, uno di quelli che amano camminare con le proprie gambe, senza bastoni a cui appoggiarsi, entrò al “Corriere della Sera” e visse la cronaca più calda. Poi fondò una rivista molto importante, “Prospettive d’arte”, alla quale collaborarono nomi di riguardo, come Ugo Ronfani e gli artisti più rappresentativi dell’arte contemporanea, oltre alla stessa moglie di Mimmo, Bruna. Pubblicò anche libri su Ernesto Treccani (impegnato con la ceramica a Forte dei Marmi), Salvatore Fiume (con un grande reportage sul viaggio in Polinesia sulle orme di Paul Gauguin), Saverio Terruso (durante la processione del Cristo a Monreale)…; ebbe contatti con Francis Bacon, Salvador Dalì, Agostino Bonalumi, Michelangelo Pistoletto, Renato Guttuso, Giorgio De Chirico, Lucio Dalla, Gino Paoli e Ornella Vanoni insieme (lui che accompagnava al pianoforte la voce di lei), e con tanti altri personaggi, non soltanto dell’arte e dello spettacolo …li ritrasse, consentendoci adesso di pubblicare alcuni di quegli scatti. Mimmo fu amico di Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, critico d’arte e teatrale (intervistò Jean Paul Sartre, Simone De Beauvoir… e scrisse, oltre a “La toga rossa”, pagine splendide, libri su monsignor Lefebvre, su 40 anni di teatro francese…) e per un breve periodo direttore della scuola di giornalismo dell’Ordine lombardo.
Gino Paoli e Ornella Vanoni (Dabbrescia)
Don Lurio, i giornalisti Antonucci e Zucchi, Piero Colaprico e lo storico Lopez
Il nome della rivista diventò l’insegna della galleria, aperta in via Carlo Torre 29, dove si estende il fascino del Naviglio Grande. In queste sale Dabbrescia ha ospitato mostre memorabili e iniziative culturali, tra cui la presentazione dei volumi “Venticinque secoli di Milano” e un libro sulla storia del calcio barese, di Gianni Antonucci, che ebbe come relatori lo stesso Don Lurio; Giovanni Lodetti, già campione del Milan; lo storico Guido Lopez (tra l’altro autore di “Milano in mano”; “Milano in Liberty”, illustrato da Fulvio Roiter; “I cortili di Milano”, da Mario De Biasi; editi dalla Celip; moderatore Piero Colaprico, inviato di “Repubblica” e noto autore di “gialli”. Per anni questa galleria prestigiosa, ricca di luce e di colori, è stata un punto di
 riferimento. Ogni mostra richiamava frotte di visitatori e suscitava l’attenzione dei giornalisti. Guidati dagli insegnanti, le scolaresche ci andavano per ammirare i protagonisti dell’arte contemporanea. In occasione di una mostra un cronista venne invitato ad illustrare le opere del cofondatore di “Corrente” (movimento culturale e artistico sbocciato a Milano nel ’38), di cui ricordiamo i volumi “Ernesto Treccani per immagini” e “Ernesto Treccani: Con il sole, senza sole”.
Dabbrescia ha dato, e continua a dare, un notevole contributo alla diffusione dell’arte, facendo apprezzare Ibrahim Kodra, Attilio Alfieri, Remo Brindisi, Madè…. E’ stato lui a rivelare, nel marzo del 1999, l’attività “segreta” di Don Lurio, rispondendo all’appello di un gruppo di amici del coreografo e ballerino, che confidò: “Da giovane avrei voluto fare soltanto il pittore. Ma ai pennelli e ai colori ho dedicato poche ore sottratte al sonno”. Anche quando per lui si sono spente le luci della ribalta di tempo ne ha avuto poco. E’ scomparso a Roma nel gennaio del 2003, a quasi 70 anni. Oggi la galleria di famiglia si chiama “Art D2” e ha due assi in più: i figli di Mimmo, Riccardo e Paolo, che dopo aver seguito corsi di studio brillanti, all’istituzione hanno dato una svolta, da qualcuno interpretata come l’arte a domicilio via internet. Non è più il pubblico che visita le mostre, ma sono i quadri che entrano nelle case. E Mimmo non sta a guardare. E neppure Bruna.














mercoledì 1 febbraio 2017

Le bische, i sequestri di droga, gli arresti – Seconda puntata



 Copia de Il Giorno appena stampata

BREVI E APPASSIONANTI

LE NOTTI DEL CRONISTA 

 



Il bambino che spostava i mobili

con il pensiero;

la liberazione dei rapiti;

l’irruzione nel mercato della droga.

 

Il vero “nerista” appartiene

alla strada: mangia panini e polvere.

 

 

 

 

 

 

 

 
Franco Presicci


Emozionanti erano le attese della liberazione di un rapito. Il 3 giugno dell’81 le brigate rosse sequestrarono un funzionario dell’Alfa Romeo, il 23 luglio lo restituirono lasciandolo su una Giulia bianca, rubata e con targa artefatta, all’estrema periferia milanese. Il primo segnale dell’imminente conclusione era arrivato il giorno prima alle 10.35. Una voce femminile aveva telefonato a un’emittente radiofonica: “Abbiamo liberato…(i nomi possono riaprire ferite: n.d.a.). Andate in via Martiri Oscuri, davanti a un bar c’è un cestino, troverete un volantino”. I giornalisti vi si precipitarono, ma ebbero una delusione. Uno scherzo? Alle 17,45 quasi non credettero alla stessa voce: “Abbiamo liberato… davanti alla Magneti Marelli…Questa volta è una cosa seria”. L’ingegnere era sul sedile posteriore, imbavagliato, gli occhiali scuri, i cerotti sugli occhi, addosso una tuta blu. Portato in questura, alle 19 abbracciò la moglie e la figlia. Alle 20,10 a bordo di un’Alfetta finalmente a casa. “Sono frastornato, dopo un mese e mezzo di letto”. I cronisti rimasero un bel po’ appostati sotto la sua abitazione per catturare notizie, poi corsa verso il giornale a scrivere il pezzo.
Il Prefetto Antonio Pagnozzi fra i cronisti Berticelli e Presicci
I sequestri riempirono le pagine dei giornali. Organizzati anche dalla malavita organizzata. Il 18 aprile fu preso un industriale del settore siderurgico e metalmeccanico. Alle 2.30 del 24 marzo dell’80 fu liberata, in una via di Pero, G.J.P.S., dopo essere stata quasi 4 mesi legata e al buio, i tamponi nelle orecchie. Poi altri due. E altri ancora “Occupandoci di sequestri – mi confidò Antonio Pagnozzi, che era stato capo della Mobile e della Criminalpol, prima di essere promosso questore e poi prefetto - ci siamo fatti aiutare anche dalla fantasia, improvvisando trabocchetti, ‘escamotage’, con il sostengo appassionato di valenti magistrati. Per indurre i rapitori ad attenuare le pretese, abbiamo persino fatto credere che i dipendenti dell’ostaggio erano scesi in sciopero per giorni, assottigliando quindi il patrimonio dell’azienda. Un mattino alle 3, in piena nebbia e al buio, con il giudice De Liguori facemmo un sopralluogo in un’area vastissima per studiare i punti nevralgici in cui piazzare i nostri uomini sul percorso indicato dai banditi per il pagamento del riscatto”. Ebbe un attimo di esitazione, poi aggiunse: “E ricordo lo stato pietoso in cui trovai un rapito…, legato a un letto… non credeva di essere davanti alla polizia. Mi chiese un caffè e glielo preparai con una macchinetta raccattata nella prigione”.

Angolo della redazione province
Il lavoro del cronista era alquanto movimentato. Capitava che un “trombettiere” segnalasse a mezzanotte un’operazione di carabinieri o polizia senza poterti dire di più: né il luogo né l’orario nè il numero degli arresti… E si entrava in fibrillazione: a quell’ora rispondevano soltanto i centralini, sia in via Moscova, sede della Regione (allora Legione) dei carabinieri sia in via Fatebenefratelli, dove al civico 11 c’è la questura, e l’ispettore della Volante si limitava a indicare una sparatoria, un’aggressione, una rissa; ma delle operazioni con perquisizioni, gente in manette e sequestri di armi, droga o roba rubata si parlava il giorno dopo in una conferenza-stampa. Intanto il “nerista” del turno di notte si dava da fare anche svegliando gli amici in grado di fornire una conferma, un particolare per evitare il “buco”. Una sera il direttore, Lino Rizzi, mi consegnò l’indirizzo di un undicenne che spostava gli oggetti con il pensiero.
Il tipografo Strada impagina lo sport seguito da Grigoletti e Signori
Presi appuntamento con il padre e mi presentai nella sua abitazione alle 21 con il fotografo Dante Federici. Ci sedemmo in salotto: sul divano il bambino fra il papà e il fotografo, io sulla poltrona, la mamma in piedi. Improvvisamente un libro di Piero Angela dal tavolino volò verso la finestra; stesso movimento una copia della rivista “Quattroruote”. Un elefantino da una mensola in alto cadde su due quadri staccatisi nel pomeriggio dalla parete e appoggiati sul lettino. Il bambino sembrava immerso nella lettura di un libro, anche quando saltò una cassetta con un gioco digitale. Erano le 3 del mattino, stavamo per andar via e fummo salutati da una delle quattro sedie a gambe all’aria sul tavolo da pranzo: si spostò cadendo sul pavimento. Sul viale verso l’uscita una pietra mi sfiorò con la velocità di un proiettile e colpì l’auto di Federici. Due giorni dopo Piero Badaloni mi volle a “Uno mattina”, la trasmissione televisiva che conduceva allora. In casa del bambino due sere dopo accompagnai Giuseppe De Carli (che diventerà vaticanista per Rai2), incaricato da Michele Santoro per “Samarcanda”. Mi telefonarono le redazioni di Rita Dalla Chiesa e di Maurizio Costanzo e una giornalista di un quotidiano tedesco, per avere informazioni. Al giornale qualcuno, leggendo, rimase perplesso, e anch’io ho difficoltà a raccontare.
Ugo Ronfani
Mesi dopo a cena un commensale mi riferì della scoperta di un covo di brigatisti. Sapeva soltanto questo, e gli spaghetti mi andarono di traverso. Per confortarmi, aggiunse che sei ore dopo polizia e carabinieri, con mezzi blindati e un elicottero avrebbero espugnato uno dei mercati della droga. Usciti dal locale, invece di rincasare, mi misi in macchina andando a parcheggiare in una strada vicina a quella dell’irruzione. Da lì, vidi arrivare la colonna, e la seguii. L’intervento terminò a mezzogiorno. Un’altra notte la trascorsi dalle parti di Niguarda fuori di uno stabile in cui in un appartamento all’ultimo piano erano nascosti cinque o sei banditi. I “detectives”, armi in pugno, rimasero appostati sulle scale, per poterli neutralizzare all’alba, all’uscita dal covo. Passai notti ai bordi delle bische dell’Arena e di piazza Tirana, durante i “repulisti” operati dalla polizia. Lì assistetti alle scenate di un “fil di ferro” che, vestito elegantemente, recitava la parte del cittadino irreprensibile spinto in quel luogo soltanto dalla curiosità. Urlava che a Londra, dove aveva soggiornato, quello che gli stava capitando era inimmaginabile: “E’ questione di civiltà!”. E agitandosi dalla fodera del cappotto svolazzarono decine di banconote destinate al banco. Alle 2 del mattino comparve una giovane donna pesantemente truccata e una gonna fatta con pochi centimetri di stoffa: consegnò furtivamente a un giocatore il guadagno della nottata e si eclissò.
Gaetano Afeltra


La sede del Giorno in piazza Cavour
L’antivigilia del Natale dell’80, verso le 23, ricevetti questa telefonata: “Il 12 aprile del ‘44 ho ucciso due tedeschi al mio paese, in Emilia, e voglio fare un’opera buona, rivelando il posto in cui sono sepolti”. “Mi dica chi è e dove posso trovarla”. “Non voglio avere guai”. “Faccia finta di parlare con un prete”. “Ho paura”. “Ho l’obbligo di mantenere il segreto”. Mi dette appuntamento all’indomani. L’articolo uscì il 28 dicembre, una domenica. Scavarono, trovarono i corpi. Uno aveva al collo la medaglietta d’ordinanza. Il direttore, allora Guglielmo Zucconi (successore di Gaetano Afeltra), m’incaricò di tornare sull’argomento e andai al paese a raccogliere particolari per un secondo articolo. Alla guida dell’auto per sua scelta, il fotografo Giovanni Dell’Abate fu molto bravo a sfidare la nebbia, fittissima, paurosa. Poi puntò l’obiettivo sul campo, sull’edificio da cui stavano uscendo in motocicletta i due soldati quando furono colpiti, sul paesaggio... Non sempre le notti cominciavano e finivano al giornale. Quelle erano notti non amate dai “neristi” innamorati del mestiere: loro appartenevano alla strada; mangiavano panini e polvere, consumavano scarpe e perdevano ore di sonno ma divoravano notizie. Se svegliati a casa alle 2 del mattino, si alzavano, si vestivano in fretta, chiamavano il fotografo e correvano. Mi svegliarono in occasione della liberazione di una ragazza rapita a Brescia; dell’arresto a Vicenza di un grosso esponente della mafia; di quello, vicino a Spoleto, per un errore, di un’”entraineuse” ritenuta complice di un tentativo di fuga dal carcere di una sorta di Vidocq… Il vero cronista risponde sempre all’appello. Le sue notti sono brevi, avvincenti.