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mercoledì 28 giugno 2017

Il giornalista Gianni Spartà



IN SELLA ALLA SUA BICI

 

IL GIRO DI MEZZO MONDO

 


Racconta in uno splendido libro,

 

“Dimmi perché parti”, la sua 

 

avventura da Varese a Messina, a Parigi,

 

in altre città europee e oltre.

 

La “due ruote” è la sua

grande passione da sempre.

 

Anni fa scrisse bellissime pagine su

“mister Ignis”: Giovanni Borghi,

prefazione di Silvio Berlusconi.

 

 



                                                              Franco Presicci

Gianni Spartà
Il 10 maggio 1898 Bava Beccaris, regio commissario straordinario di Milano, vietò la circolazione in città e provincia a biciclette, tricicli, tandem, avvertendo i trasgressori che sarebbero stati arrestati e deferiti al tribunale di guerra. A provocare il provvedimento fu la paura che il generale aveva di questo mezzo di locomozione. Se i tempi non fossero cambiati, il cavallo metallico non avrebbe potuto scrivere le sue pagine di storia; e migliaia di pedalatori sarebbero finiti al fresco. Invece eccoli mentre arrancano sulle nostre strade in salita e vanno come un treno sui declivi. Il decano dei fotografi di Martina Franca, Benvenuto Messìa, portò all’altare sul telaio di una Bianchi la figlia in abito da sposa. Su una bici hanno viaggiato la moda e l’amore.
Spartà pronto per la partenza
Gianni Spartà, già pilastro dello storico quotidiano di Varese, “La Prealpina”, in sella ha scritto un libro: “Dimmi perchè parti”, prefazione di Vincenzo Nibali, edizioni d’Este, Perché parti? Ma per quella passione che quando è autentica fa fare cose pazze. Per la voglia e il piacere di volare, di respirare un’aria diversa, per provare l’ebbrezza della pedalata, osservando, nelle soste, panorami incantevoli; per conoscere persone, dialogare. Non per sentirsi Alfredo Binda, la cosiddetta locomotiva umana; o Costante Girardengo. Spartà corre da una vita; ha macinato chilometri da Varese a Messina, la sua culla, fermandosi dove c’erano preziosità da vedere. A Lourdes; sotto il cielo d’Irlanda; in Romagna, nelle Marche, in Umbria... E continua. Quando è stanco si riposa sull’erba guardando l’azzurro in alto. O scambia due parole con il primo che incontra. Mentre se ne sta pensieroso in un’arteria di Parigi un tizio gli domanda, secco: “Tu sei di Varese? ”Sì, sono di Varese. Nato in Sicilia”. “Sei di Varese e sei venuto in bicicletta?”. Da Varese a Parigi in bicicletta? Non sono niente le distanze, per Gianni. Lui in bici è capace di andare in capo al mondo. Non importa il tempo che fa. Ma l’interlocutore non può saperlo. Lui a Parigi è venuto in camper. “La scenetta è autentica. E’ riportata nel libro. “Accadeva un giovedì d’agosto…. Uno macina ottocentoquaranta chilometri, scavalca le Alpi, fiancheggia il Lemano, attraversa il Giura, vede cattedrali, campi di grano, praterie, compila una specie di diario come i viaggiatori del Gran Tour, e quando piomba sull’obiettivo, la sorpresa è bruciata. Qualcuno sa già tutto. Niente di eroico, per carità.
Spartà, a sinistra, in tour
Ma Parigi, solo andata, su una bicicletta è sicuramente un’emozione per tre peones del pedale: Fernando, Corrado e il sottoscritto…”. Già questa avventura, una delle tante, l’ha fatta in compagnia. Dev’essere una gioia costeggiare vigneti gravidi; inoltrarsi in città vestite a festa; contemplare “fuochi d’artificio che a mezzanotte illuminano a giorno un castello piantato su una roccia alle falde del Gran San Bernardo” e accendono stelle multicolori. Gianni pedala ritmicamente, e lo stomaco manda segnali: il suo orologio non ammette grandi ritardi. E si avverte il bisogno di una tregua, Sono a Vitteaux, dove l’unico albergo ha le luci spente, l’unico campeggio non ha più tende disponibili. Rimettersi in sella? Il paese più vicino è a cinquanta chilometri. Tranquilli, si delinea un’anima buona pronta ad offrire un paio di coperte. Al letto deve però provvedere uno spazio all’aperto. Ce n’è tanto. Non è un problema dormire all’addiaccio per questi tre patiti del pedale. Che un pizzico di fortuna devono averla, se il padrone dell’hotel alla fine si lascia convincere a concedere un giaciglio.
Spartà e il paesaggio
Nei suoi viaggi Gianni Spartà ne ha viste, di cose. Una città che a dar credito alla leggenda un tempo aveva una cinta di catene d’oro; il castello in cui D’Annunzio ambientò “La fiaccola sotto il moggio”… Vai, ragazzo, vai. E Gianni, che non è più un ragazzo da un pezzo, riprende la corsa. La bici s’impenna, rallenta, il manubrio va senza la stretta delle mani, mentre si profila un paesaggio da sogno. Le emozioni si susseguono. Ecco L’Aquila devastata dai terremoti. “Un duomo barocco rimasto senza testa…con quella cupola dimezzata…”. Toh, lì un giovane pasteggia solitario in mezzo alla strada, seduto a una tavola imbandita. Chi è? Una scolaresca li saluta; altra gente si ferma per incoraggiarli. Una meraviglia, l’Abruzzo, “fatto per l’immortalità”. Dalla terra di Benedetto Croce e del vate alla Puglia, che dette i natali a Tommaso Fiore, il grande meridionalista (“Un popolo di formiche”, vincitore del Viareggio nel ‘55; “Il cafone all’inferno”…). A Trani, città che s’affaccia sul mare, a suo tempo sede di una corte severissima, l’ingresso nella cattedrale è impedito da un “don” intransigente. Non si può entrare nel tempio in pantaloncini. “E poi con quei tacchetti spigolosi mi rovinate il pavimento. Ha resistito nove secoli e io lo devo tramandare senza graffi”. Ma poi il nome di Sant’Ambrogio impresso sulle maglie di quegli scatenati compie il miracolo: il prete allenta la fermezza.
Spartà osserva il panorama
L’hanno fatta, a Bari, una visita a San Nicola, il protettore contestato perché ritenuto sordo alle invocazioni dei cittadini? Chi pensa che non l’abbiano fatta si sbaglia. A Martina, come Cesare Brandi, Gianni si era fatto viandante tra i vicoli, le stradine a serpentina e le “nchiòstre” del centro storico, ammirando con il naso all’insù i balconi spanciati, come il regista Pierluigi Pizzi, frequentatore del Festival della Valle d’Itria amato da Paolo Grassi. Gianni Spartà è un cronista di stoffa pregiata e sa raccontare anche nei dettagli con uno stile alto, godibile, veloce come le ruote della sua bici. “Dimmi perchè parti” ti prende lasciandoti all’ultima pagina. Pagine piene anche di curiosità. E di personaggi. Sportivi, intellettuali, gente comune, giornalisti. Riemerge Gianni Brera, il grande, che ribattezzò Gigi Riva “Rombo di tuono”. Ma quelli sono Montalbano e Luisa Ranieri! Ed echeggia la voce eccitata di Catarella: “Dottore, dottore” mentre l’imbranato piantone si scontra con la porta del commissario più famoso d’Italia?. “A Nova Casa di Vilaseiro Negreira, più che un paese un presepio di case coloratissime”, s’imbatte in un ragazzo pieno di tic nervosi, desideroso di confessarsi.
Gianni Spartà durante una sosta
E’ un lombardo di 36 anni, cognome meridionale. Un poveraccio diventato ricco arruolandosi nella Legione Straniera. Pagato bene per eliminare terroristi. Spartà descrive i luoghi con maestria: la basilica mariana sulla collina…affollata di ex voto per marinai usciti indenni da un affondamento, o per pescatori salvi dopo una tempesta. “Dall’alto di questa chiesa come altre a Marsiglia in stile romanico e bizantino insieme si scorge a un miglio dalla costa un’isoletta che sarebbe rimasta un’isoletta se ad essa Dumas non si fosse ispirato per narrare la prigionia e la fuga del Conte di Montecristo”. Scrive anche stando sulla groppa di un’elefantessa d’acciaio – parole sue – “Per proboscide ha un largo cuneo che domina le onde. Per zampe turbine nascoste che la fanno muovere in agilità. Sì, siamo in crociera. Al sole sul ponte della Pacifica…”.
Un’ammiraglia della Costa. Dipinge, con le parole, Gianni Spartà. Le parole possono essere pietre e dolcezze; e musica, come quella che può regalare il mare. Ed ecco che il suo pensiero corre al grande Tiziano Terzani, che iniziò il suo lavoro di giornalista al “Giorno”. Scrisse: “Evviva le navi. Teniamole in vita come una prova d’amore. Usiamole per far felici gli ultimi romantici e per salvare i depressi”. Quanta esperienza ha accumulato percorrendo la via francigena fino a Roma o pregando il Padreterno di farlo approdare indenne a Cefalonia dopo una traversata su una barca a vela partita da Siracusa. Le ha provate tutte, Spartà. Inesauribile il suo spirito di avventura. Aveva 19 anni quando lo conobbi ad Arco di Trento a un convegno sull’Europa. Era con il suo direttore di allora, Lodi. Chissà se già inforcava la bicicletta, simbolo di coraggio, libertà, voglia di scoprire cose e persone, storie e leggende, di entrare in contatto con il resto del mondo. La bici ha fatto da modella ad artisti consacrati: Umberto Boccioni, Aligi Sassu, Mario Sironi, Mario Schifano… E gli eventi musicali? “Ma dove vai bellezza in biciletta? Ah, la Silvana Pampanini! La rivoluzione cinese – scrisse Ugo Ronfani una trentina di anni fa in un pezzo per un concorso indetto dai produttori del settore (arrivò secondo) – l’hanno fatta in sella alle due ruote. In bici i contadini raggiungevano il podere, ingoiando venti chilometri al giorno. “Come si chiamerà il poeta italiano che fra non molto scriverà l’ode della bicicletta?”, chiedeva Alfredo Oriani nel 1925. Pascoli, Stecchetti…





mercoledì 21 giugno 2017

Il mondo contadino di Giuseppe Gorni




REALIZZO’ UN MONUMENTO 

 

ALLA LEGA DEI BRACCIANTI

 

 


 

La statua, enorme, a

Quistello, paese del Mantovano.

 

 

 

Nel ’75 una mostra del grande

scultore a Palazzo Reale, di

fianco al Duomo, a Milano.

 

 

 

Morì a Domodossola, lo stesso

anno.

 

 

 

Un Museo a Nuvolato, dove aveva casa, racconta 

tutta la sua storia artistica.

 









Franco Presicci


Diceva che l’esistenza dei contadini era sempre uguale: la stessa fino dai tempi più lontani. Come Carlo Levi, diceva che la storia era passata su di loro senza toccarli. Aggiungeva che quegli uomini dal volto bruciato dal sole vivevano senz’alcuna speranza.
Autoritratto di Gorni
Lui, Giuseppe Gorni, di Nuvolato, frazione di Quistello, figlio di un agricoltore, li dipingeva e li modellava con l’argilla del Po, resistente anche se non cotta. Ammirai le sue opere in più di un’occasione; e poi nella sala delle Cariatidi a Palazzo Reale nel maggio del ’75: una mostra personale organizzata dalla ripartizione Cultura del Comune di Milano, con la collaborazione della Regione Lombardia; un avvenimento importante, di grande risonanza, che – scrisse Mario De Micheli nel catalogo – corona la sua lunga vita: una vita dura, difficile, ostile, che solo da pochi anni gli ha concesso respiro e soddisfazione… Gorni appartiene alla prima generazione del Novecento….”, quella di Sironi, Carrà, Campigli. Il giorno dell’inaugurazione mi parlò dei bifolchi, degli obbligati, che dovevano essere sempre disponibili, anche al di fuori delle 14 ore al giorno di lavoro; dei campari, addetti alla regolazione delle acque… , delle loro fatiche, della loro miseria.
Accennò alla lega di San Rocco di Mantova, “esempio di solidarietà e di fratellanza, sorta nel 1890; e ai primi scioperi a Ostiglia (a suo tempo contesa tra mantovani e veronesi) e nei paesi vicini, nella primavera del 1898. I proprietari reagirono facendo una cernita severa nell’assunzione di manodopera.
I contadini di Gorni
Il direttore de “La Provincia” Bacci, giunto a Ostiglia in rivolta, riferì di non aver sentito un grido né una minaccia (“Calmi, silenziosi, impassibili, irremovibili”). Gorni a quell’epoca aveva 4 anni. Persona schiva ma gentile, conosceva molto bene il mondo che ritraeva con potenza espressiva. Come in “Ritorno dal mercato”; in “Attesa”, in “Contadina e il suo bambino”; nell’uomo asciutto, energico da lui raffigurato a San Rocco nel monumento alla prima lega contadina d’Italia, che, battezzato il Primo Maggio ’74, rappresenta la storia del lavoratori della terra del Mantovano … “Dipingere una pianta, un vecchio, una donna impegnata nel lavoro dei campi è per me la stressa cosa. Li tratto con lo stesso amore”. “Confermo”: la voce del direttore di “Sette Giorni”, Davide Lajolo, arrivato con passo svelto assieme al critico Mario De Micheli e al poeta Umberto Bellintani. Per il primo, la mostra rendeva giustizia all’arte di Gorni: un avvincente racconto che si dispiega in tutta la sua forza poetica. Era un tributo doveroso ad un artista che ha sempre creato in solitudine e intensamente, anticipando i tempi.
Donna che entra al cimitero
Giuseppe Gorni mi colpì. E negli anni mi è capitato spesso di sfogliare nella memoria i suoi disegni, le sue tele, le sue statue: viandanti, zappatrici, contadini a riposo, stecchi di pioppo, ragazzi con asino, animali … Lo immaginavo nella sua casa di campagna di Nuvolato; in quelle strade in cui era facile incontrarlo in sella alla bicicletta o in compagnia della moglie Milia. “Ad un’esposizione milanese mandai la bicicletta di Learco Guerra, il corridore campione mondiale nel ’31 e vincitore della Milano-San Remo, nel ‘33, una locomotiva umana, sulla quale avevo montato un uomo che pedalava. Me la scartarono e la collocarono in un angolo del cortile”. Non sempre chi decide vede oltre il proprio naso. Figlio di un agricoltore, Gorni aveva frequentato le scuole tecniche a Padova e la facoltà di veterinaria a Bologna. “Ho partecipato alla prima guerra mondiale, sono stato internato nei campi di Dunazerdahely e di Dajmasker, l’uno e l’altro in Ungheria. Lì avvertii il desiderio di dedicarmi alla pittura e alla scultura; e cominciai ad imprimere sulla carta le immagini che si presentavano ai miei occhi”. A Dajmasker condivise le ore con Massimo Campigli, allora giornalista al “Corriere della Sera”. Fu lui, stimandolo, ad incoraggiare il suo talento. E non fu il solo. Nel ’22 conseguì il diploma all’Accademia di Belle Arti della città felsinea.
Le scuole elementari di Nuvolato
Tornò nelle sue contrade, a Nuvolato, dove sistemò lo studio. A Quistello fondò la scuola tecnica, che lo ebbe come direttore e insegnante. Osteggiato dal regime per le sue idee, fu privato della cattedra. Non si perse d’animo. Andò in Francia per qualche mese, e a Parigi disegnò per “L’Umanitè”, “L’ère nouvelle”…; frequentò gli “atelier”, strinse amicizie. Rientrato in Italia, a Mantova fu presente ai fermenti dell’avanguardia. Le sue sue opere furono elogiate da Filippo Tommaso Marinetti, padre del Futurismo. Gorni s’innamorò anche della xilografia, dell’acquaforte, della puntasecca ed eseguì l’illustrazione delle Georgiche di Virgilio. Dal ‘41 al ’43 nuovamente in guerra, sul fronte russo. Smessa la divisa di maggiore, riprese a dipingere e a scolpire. Contava molti amici, compresi i critici Carlo R. Ragghianti, che scriverà una sua dettagliata e puntuale biografia, De Micheli, che lo apprezzavano.
Giuseppe Gorni
Nel ’65 eccolo alla Galleria Gianferrari di Milano. Nel ’68 il “Premio Suzzara”, che si era aggiudicato più volte, gli organizzò una grande rassegna. Nel ’72 la “Casa del Mantegna” di Mantova ospitò una rassegna delle sue opere. Poi ancora a Firenze e altrove, suscitando ovunque il consenso della critica più intransigente. Quando a Nuvolato si godeva la quiete e il silenzio della campagna attraversata da filari di gelsi, faceva graffiti sulle facciate delle case anche nei paesi vicini: qui il momento meraviglioso della nascita di un vitellino in una stalla; lì la fattura del pane; la vendemmia; donne che raccolgono la legna; vecchietti seduti a un tavolo con in mano ventagli di carte da gioco… Scenografie sorte dal bisogno che Gorni aveva di raccontare non soltanto con la tavolozza e la creta.
Donne di Gorni



Nel ’19 Margherita Sarfatti (scrittrice, critica d’arte, autrice, nel ’26, di “Dux”, uscita da Mondadori con prefazione dello stesso Mussolini, di cui la signora alimentò il cuore) lo definì “anticipatore dell’avanguardia artistica del dopoguerra”. Gorni non se ne gloriava. Proseguiva la sua attività, suscitando l’interesse e l’entusiasmo di tanti nomi eccellenti, tra cui Ardengo Soffici (tra i fondatori de “La Voce”) e Mino Maccari (direttore de “Il Selvaggio”, che egli stesso aveva fondato)… Quel giorno a Palazzo Reale Gorni mi parlò anche di pastori. “Li osservavo negli attimi di libertà che mi concedevo. Ero felice”. Probabilmente il ritratto di Elsa, il ragazzo che riposa, la donna che guarda… sono ispirati ai volti di quella famiglia. Giuseppe Gorni è stato grande in diversi campi dell’arte.
Una sala del museo Gorni





Suoi anche i progetti di tanti edifici, come la scuola elementare, che dal 13 maggio del 2006 è sede, in via Europa 58 a Nuvolato, del Museo diffuso, che su diversi piani schiera le opere di questo artista poliedrico. Perché “diffuso”, chiedo a Enzo Gemelli, che è stato presidente di quel luogo prezioso. “Perché i segni di Gorni, cui si deve tra l’altro un monumento alla donna, si estendono a tutto l’Oltrepò mantovano”. La struttura fu danneggiata dal terremoto del 2012 e ricomposta con sforzi e passione. I visitatori, sempre più numerosi, vi possono ammirare opere grafiche, sculture, tele, disegni risalenti agli anni di guerra e di prigionia dell’autore; la galleria fotografica; consultare documenti, tra cui i taccuini personali in cui Gorni abbozzava tutto ciò che lo attraeva; le pagine di “Brevi note sulla mia vita”… Gorni mòrì a Domodossola nell’agosto del ’75, lo stesso anno della mostra a Palazzo Reale. Nell’88 un premio prestigioso, “La spiga d’oro”, fu assegnato alla sua memoria; a Quistello gli hanno dedicato una via. Poi sono arrivati tanti altri riconoscimenti. Insomma il ricordo di questo maestro non si spegne. Anche grazie alla Fondazione a cui è affidata la gestione del Museo diffuso, che svolge alla grande il compito di tenerlo vivo.













mercoledì 14 giugno 2017

Tonnellate di lapidi e targhe



SUI MURI DEI PALAZZI LA STORIA DI MILANO

 


Lungo il Naviglio Grande

 

 

 

In via Bigli abitò Eugenio Montale e tenne il celebre salotto la contessa Maffei.

 

In via Lanzone ebbe casa Francesco Petrarca;

 

in via G. Morone “don Lisander”. 

 

La statua di “sciur Carera”: “omm de prèja”, Pasquino della metropoli lombarda.

 




Franco Presicci


 
I milanesi di solito guardano la città attraverso il parabrezza o lo specchietto retrovisore; e quando vanno a piedi emulano Alberto Cova (campione olimpionico dei 10.000 metri piani nel 1984 ai Giochi di Los Angeles) senza alzare la testa. E così la storia immortalata sulle tremila lapidi affisse sulle facciate degli stabili è un libro quasi mai sfogliato.
Via Rovello
La stessa sorte tocca alle targhe con i nomi delle strade. Evidentemente a pochi interessa sapere perché due delle vie di Brera si chiamino Fiori Oscuri e Fiori Chiari; perché altre due Mario Pannunzio e Gaetano Baldacci, entrambe alla Bicocca; se un percorso sia stato un parco, un giardino, un mercato; il luogo per l’esecuzione delle sentenze capitali o per laboratori di artigiani fuoriclasse. Si ha – va detto – ben altro di cui preoccuparsi, con i tempi che corrono. Nel 1972 Alberto Delfino, giornalista del quotidiano voluto da Enrico Mattei, “Il Giorno”, battezzato in via Settala e trasferitosi in un edificio appositamente costruito dall’Eni in via Angelo Fava, quindi in piazza Cavour, scrisse “Un libro da 100 tonnellate”, edito dall’Ufficio stampa del Comune. Nella presentazione, Aldo Aniasi, allora sindaco di Milano, elogiò la paziente ricerca dell’autore, “una sintesi che ha il pregio della scoperta”; e osservò che Delfino aveva suddiviso la materia in tre capitoli fondamentali: il Risorgimento, la Resistenza, gli uomini illustri: pittori, scultori, architetti, scienziati, letterati…, come Carlo Imbonati (1753-1805), che ospitò nel suo palazzo in piazza San Fedele l’Accademia dei Trasformati, “nemica” delle languidezze dell’Arcadia; e Maria Gaetana Agnesi, filantropa, studiosa di matematica, docente all’università di Bologna, realizzatrice nell’odierna via Santa Sofia di un ospedale per donne ammalate bisognose. Negli anni Settanta, per il settimanale “Il Milanese”, e per Telemontepenice, esplorai molte vie.

Arco della Galleria
L’idea mi venne il giorno in cui con Piero Mandrillo andai in via Bigli 11, a casa di Eugenio Montale. Il professore tarantino, che aveva scritto diversi libri; dato vita nella Bimare, con Giuseppe Barbalucca, a una pubblicazione molto ben curata; insegnato in più di un istituto (anche a Subiaco), oltre che all’università di Wellington, in Nuova Zelanda; e confezionava trasmissioni su Tv Taranto (la prima antenna della città), doveva intervistare il poeta Premio Nobel per “Il Corriere del Giorno”; e mi pregò di accompagnarlo, visto che avevo già frequentato quell’indirizzo. Via Bigli, che prende il nome da un’antica famiglia patrizia folta di importanti esponenti della chiesa, della cultura e della magistratura, mi affascinava, anche perché al civico 21 echeggiavano le voci del salotto della contessa Clara Maffei, nata Carrara Spinelli e maritata con il poeta Andrea Maffei della Valle di Ledro: una donna dal carattere vigoroso, circondata da amici illustri, da Listz a Balzac, a Tommaso Grossi; da patrioti milanesi… (fece incontrare Boito e Verdi; il compositore di Busseto e Manzoni; fu amica di Carlo Tenca, padre dell’organo “Il Crepuscolo”).
Uno degli ultimi barconi
Nella descrizione di Giovanni Verga era “una donnina piccola, piacente più che bella, elegante, di maniere distinte e gentilissima…”, dal “patriottismo ardentissimo”. Poco prima della sua morte, nel 1886, ricevette la visita di Giuseppe Verdi, venuto apposta da Montecatini. In via Borgonuovo, denominata un tempo “contrada dei nobili”, ma pullulante anche di artigiani e di famiglie meno fortunate, sostò Isabella d’Este, rimanendo sorpresa dal gran numero delle carrozze in possesso dei meneghini. Nella stessa via aveva fatto molto parlare di sé la contessa Giulia Samoyloff, il cui nonno era stato accusato di avere ucciso lo zar Paolo I. Innamorata degli animali, durante un carnevale fece sfilare in carrozza un gruppo di gatti in maschera e partecipava a ricevimenti e gite accompagnata da un corteo di pappagalli e canarini. Stando ad alcuni che si dicevano informati, aveva un rapporto sentimentale con Nicola I e si faceva il bagno in una vasca riempita di latte.
Terrazza Martini

Via Giuseppe Mengoni ricorda l’architetto bolognese che, avendo ricevuto nel settembre del 1863 dal Comune di Milano l’incarico di riordinare piazza Duomo, il 30 dicembre del 1877 perse la vita precipitando da un’impalcatura in Galleria Vittorio Emanuele. Aveva 48 anni. In via Orefici esisteva un carcere (per i debitori insolventi), detto la Malastalla, fatto allargare nel 1375 da Bernabò Visconti. L’arteria fu in seguito assegnata ai laboratori dei battiloro da Ferrante Gonzaga, governatore spagnolo della città, che per motivi di ordine pubblico destinò ogni mestiere a una contrada diversa; e si ebbero via Spadari, via Armorari, via dei Fabbri… piazza del Macello, per un mattatoio che, aperto nel 1862, era il più grande d’Europa, Per i lavoratori sorpresi fuori dei propri confini erano previste sanzioni non da poco, compresa la perdita della cittadinanza. Tra le vie San Paolo e San Pietro all’Orto c’è una statua detta “Omm de preja” o “sciur Carera”, che durante il dominio austriaco “fu per Milano quello che per Roma era l’effige di Pasquino”, dove, ai piedi o al collo, uno sconosciuto affiggeva satire in versi contro l’arroganza e le ingiustizie del potere.
Via Albricci
Non si è mai saputo chi fosse costui. Un burlone, un titolato, un popolano, uno sfaccendato? Certo è che una delle sue canzonature stimolò lo “sciopero dei sigari”: l’astinenza dal tabacco atto a prosciugare le casse del monopolio straniero. Via Lanzone, intitolata a un nobile milanese vissuto nell’XI secolo, eletto tribuno del popolo e poi torturato e cacciato dalla città, è una via stretta, tranquilla e silenziosa nei pressi della Basilica di Sant’Ambrogio. Per qualche tempo vi abitò Francesco Petrarca prima di optare per la Cascina Linterno, in via Fratelli Zoia. Deceduta Laura nel 1348, l’autore del “Canzoniere” aveva girovagato per l’Italia e incontrato a Parma l’arcivescovo Giovanni Visconti, che gli aveva proposto un incarico a Milano. Via Laghetto fu ispirata da un piccolo bacino scavato per raccogliere le acque del naviglio, quindi i barconi che vi scaricavano soprattutto i marmi per il Duomo. Via Pannunzio rende omaggio a colui che fu condirettore del settimanale “Omnibus” di Leo Longanesi e direttore de “Il Mondo”; Via Baldacci al fondatore de “Il Giorno”. E via Bagnera? Per alcuni studiosi qui in epoca romana esisteva una “baniaria”: bagno pubblico.
Piazza Gae Aulenti
Piazza Gae Aulenti, ultramoderna, spettacolare, sopraelevata, circolare, quasi un terrazzo della città, rende omaggio a un genio dell’architettura originario di Palazzolo dello Stella, Udine. Via Caminadella, vicina alla Lanzone, è anch’essa un’oasi. Un vecchietto con il volto seminascosto sotto una barba alla Carlo Marx forata da due carboni accesi, mi accennò alla sua storia. Fino al 1200 circa le case del popolo erano in legno; avevano tetti di paglia e camini fatti di fango impastato. Successivamente quelle pipe fumanti vennero costruite in mattoni. E forse proprio da quelle proviene il toponimo. Via Verziere secoli or sono faceva parte della tavolozza botanica dell’arcivescovo di Milano, prima che vi si insediasse un mercato che dal 1797 ingoiò l’aria di largo Augusto e oltre. Milano ha concepito tante personalità eminenti, tra cui il grande oncologo Umberto Veronesi. Tante altre erano venute da fuori. Come Amalia Moretti Foglia, una delle prime laureate in medicina del nostro Paese (la terza), la prima pediatra, nota anche per le sue rubriche su “La Domenica del Corriere”: “La parola del medico”, con lo pseudonimo di Amal; “Tra i fornelli”, con quello di Petronilla. La regina Margherita volle incontrarla a Roma. Era nata a Mantova, abitò in via Tadino, a Milano; morì nel ’47. Non credo che le abbiano intestato una strada. Dovrebbero. E anche ai tarantini Raffaele Carrieri e Domenico Porzio: il primo, poeta e critico d’arte; il secondo, scrittore, giornalista, critico letterario, autore di saggi su Borges… E ad Alberto Dall’Ora, veronese, che è stato uno dei principi del foro milanese; Con tanti altri hanno contribuito a far grande Milano.





mercoledì 7 giugno 2017

Non si può dimenticare Taranto




RICORDO DEL VOLTO PERDUTO

 

DI UNA CITTA’ MERAVIGLIOSA

 


 

Collage di Vincenzo Santoro

Gli angoli cancellati dal cemento; 

 

 

 

le persone scomparse; i giornalisti i poeti, i pittori…

 

 

 

 

 

Piero Mandrillo che a Milano intervistava Eugenio Montale e Raffaele Carrieri, nato nella Bimare;

 

 

 

 

Franco De Gennaro e Giovanni Acquaviva, direttore de “Il Corriere del Giorno”.

 





Franco Presicci

Lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Recita così un granello di saggezza popolare. Ma non sempre risponde al vero. Ci sono amori che non finiscono mai: quando sembrano spenti riemergono, come il fuoco dalla cenere. Può dimenticate Taranto chi l’ha avuta come culla? Quando meno se l’aspetta fluiscono i ricordi, come l’acqua del Galeso. Anche se qua e là sfocate, le immagini del tempo andato a volte fanno male: accade quando chi vive ormai da un’altra parte, tornando, non trova più i luoghi dell’anima, spazzati via dalle colate di cemento.
Mar Piccolo
Scomparsi gli stabilimenti balneari, dal Santa Lucia al Nettuno; da Lido Taranto all’Elena…; tanti cinema: il Paisiello, l’Odeon, il Rex,  divorato da un incendio, il Littorio...; tante voci, quelle degli ambulanti che reclamizzavano urlando la propria merce (il venditore di “pambanédde: quagliato avvolto in un pampino) o la propria attività: il calderaio, l’arrotino, il riparatore di lumi a petrolio… La “Parigi del mondo antico” (definizione di Ettore Pais riportata da Vito Forleo) mi fu decantata anche dall’attore Ernesto Calindri nella sua abitazione di via Statuto, e una sera del ’65 nel bar Donini in piazza San Babila, alla vigilia della “prima” della commedia “Uno sporco egoista”, che lo aveva protagonista (e da Wanda Osiris nel 1988). Lo aveva talmente colpito, questa regina del mare, che quando, nel 2002, Ugo Ronfani, già vicedirettore de “Il Giorno”, uomo di profonda cultura, scrittore e critico teatrale, lo invitò per un convegno da lui organizzato nella bimare, al Jolly Hotel o al Delfino, non ricordo, nonostante i suoi 90 anni accettò; e una mattina, scendendo dalla pedana, cadde fortunatamente tra le braccia di due veloci soccorritori.
Alfredo Lucifero Petrosillo
E non c’è più la Sem, che a suo tempo nei suoi lussuosi saloni, tra specchi e cristalli, ospitò le prime serate dei Lions e dei Rotary e i balli di carnevale e altre feste, anfitrione solerte don Ciccio Messinese. Piazza Marconi c’è, ma senza più il mercato. Il monte delle vacche è finito sotto i piedi dell’ospedale. Viale Venezia ha cambiato faccia (da campagna a vialone popolatissimo)… Ma è sempre bellissima, Taranto, adorata dal poeta Orazio (“Se le inique Parche mi terranno lontano da Tivoli, me n’andrò alla corrente del fiume Galeso e verso i campi ove regnò lo spartano Falanto”). Tra i vecchi, qualcuno ha dimenticato la tipografia Leggeri, che stava in via Anfiteatro, di fronte alla piazza coperta? In quella fucina si stampava “’U panarjidde”, “quidde piccinne ca no làsse de pète a nesciùne”, fondato nel 1902 da Vincenzo e da lui diretto per molti anni.

Marche Polle
Tanti i poeti che scrivevano sul periodico satirico-umoristico in dialetto, che aveva uno “strillone” particolare: “Màrche Pòlle” (“U vuè ‘U panarijdde’? No? Allòr’accàttete ‘a schedìne”). Fu raccontato anche dal grande Giacinto Peluso, in uno dei suoi libri; e ispirò molti versi. I nostri poeti, di ieri e di oggi! Nerio Tebano: “Ho raccolto un po’ di sole/ lo terrò stretto tra le mani/. Dono d’amore, andrò nei vicoli/ di Taranto vecchia, schiuderò/ le mani, darò ad essi la luce/ che porto, le povere case/ la povera gente, lo so/ sorrideranno, con stanca/ tenerezza, a quel sole rubato …”. Vincenzo Fago, 1913; “Piccolo mare, talamo canoro/ di nativi tritoni e di sirene/ accorrenti alle tue sponde serene…”. Armando Perotti: “E ancor tu guidi le sonanti e fresche/ acque, per dolce clivo, alla tranquilla/ spera del mar, tra floridi giunchetti/ fiume Galeso…”. Alfredo Lucifero Petrosillo, autore anche di commedie, in lingua e in vernacolo, ci ha lasciato “Trasparenze”, “Eroi latini”, “Lo spettro del tempo andato”, “Uomini e libri”, “Visioni ebaliche”, “’U travàgghie d’u màre”…Claudio De Cuia, poeta e xilografo ampiamente citato in un convegno sul vernacolo tenuto anni fa a San Marco in Lamis. Saverio Nasole, il cui ricordo è tenuto vivo dal complesso folkloristico “Armonie dei Due Mari”. Diego Marturano, padre di testi teatrali (‘U cuèrne de Marie ‘a Canzìrre”….) e di bellissime raccolte di poesie, come “’U relogge d’a chiazze”, “Vele a’ ‘u vìende”, “Cambàne”…
Michele Pierri
Michele Pierri, medico, esaltato da Carlo Bo, Caproni, Barberi-Squarotti, Falqui, Luzi, Pasolini…. Nell’ottobre dell’84 sposò Alda Merini, che rimase a Taranto fino alla morte del poeta, avvenuta quattro anni dopo. Spesso penso al “Corriere del Giorno”, diretto da Giovanni Acquaviva, che ha avuto firme notevoli: Ventrella, Di Battista, Cavallaro, Casulli, poi passato ad altra professione; Tani Curi, trasferitosi al quotidiano dell’Eni a Milano; Livio De Luca, che, proveniente dal “Corriere Lombardo”, quotidiano milanese del pomeriggio, divideva il suo tempo tra la testata di Acquaviva (a cui si devono anche molti libri su Taranto) e il settimanale brindisino “Il Meridionale”, dell’avvocato Margherita; Mario Ligonzo, che negli anni ’60 emigrò a “Corriere della Sera”, quindi, stanco di passare le notti in bianco, al “Corriere d’Informazione”, che usciva a mezzogiorno; Vincenzo Petrocelli, che, tarantino del ’39, vent’anni dopo era già iscritto all’Ordine interregionale dei giornalisti di Bari. Al “Corriere” fece tutta la carriera, dalla cronaca a redattore capo. Franco De Gennaro, responsabile delle pagine sportive, persona integra e generosa sotto una scorza dura. Una sessantina di anni fa gruppi di sconsiderati buttarono a mare le auto dei tifosi ospiti, mentre le squadre del Taranto e del Bari duellavano sul campo; e De Gennaro titolò “Cretinismo numero 1” e “Cretinismo numero 2”.
Peluso e Mandese
Sono stati più d’uno i traslochi del giornale, diffuso anche in Basilicata: dal piano terra del Palazzo degli Uffici (dove alloggiavano il liceo classico “Archita”, il vecchio tribunale…), fronte su piazza Garibaldi, a via Mazzini; sul cinema Odeon in via Di Palma, nel tratto in cui una volta erano collocati i binari di scambio del tram che dalle dieci palazzine, a Solito, andava alla stazione ferroviaria; a via Dante nell’edificio dei Beni Stabili; a piazza Maria Immacolata, di fianco alla libreria Filippi, oggi in corso Umberto; e all’abitazione del poeta, dialettologo, commediografo, etnologo Alfredo Nunziato Majorano (“A Sanda Mòneche, “’U fìgghie d’a Madònne”…), che ebbe una nutrita corrispondenza con Gerhard Rohlfs (“Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”). Responsabile della terza pagina per anni è stato Giuseppe Barbalucca, pediatra con la passione per la carta stampata. Tra i collaboratori Paolo De Stefano, che insegnava latino e greco all’’”Archita” prima di diventare preside al “Quinto Ennio”; e Piero Mandrillo, critico, saggista, pubblicista, professore di lettere, cultura immensa, tra l’altro autore di volumi importanti (“Carducci”, “Uomo nell’ombra”, “An english journalist in Italy”, “Motivi italiani nella poesia di Shelley”…); spesso pellegrino a Monza per far visita alla figlia Maria Teresa, anche lei in cattedra, e a Milano per interviste al poeta e critico d’arte tarantino 
Raffaele Carrieri ritratto da M. Dabbrescia
Raffaele Carrieri (“Epoca”, “Corriere della Sera”), che abitava in via Borgonuovo e aveva una bellissima casa ricca di quadri e sculture vicino a Lucca; al critico letterario Giuliano Gramigna, nella redazione del “Giorno”; a Eugenio Montale nel suo domicilio di via Bigli. Piero insegnò letteratura italiana all’Università di Wellington; e descriveva la cultura della città con incontri anche su Tv Taranto. Sul “Corriere” pubblicavano a volte anche Luigi Flauret, autore di un saggio introvabile: “Paesaggio pugliese di Raffaele Spizzico”, uscito nel 1964; e Franco Sossi, critico d’arte molto stimato da Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma, e direttore di un periodico, “Il Rostro”, confezionato nella sua abitazione di piazza Bettolo. Altre figure della Taranto di allora? Togo Lassandro Pepe, docente di chimica bromatologica all’ateneo di Bari; e i pittori che nel ’50 si rivoltarono contro il Premio Taranto, eccellente iniziativa che attirò nei locali dell’Istituto talassografico i nomi più rappresentativi dell’arte contemporanea e critici autorevoli come Marco Valsecchi. I contestatori imbrattavano i muri con scritte “Viva Giotto e abbasso Meloni”, alle quali rispondeva Oronzo Valentini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Nel ’51, uno dei più accaniti, Giuseppe Pignataro, che aveva lo studio nell’androne di un palazzo di via Di Palma, di fronte al negozio di scarpe di Protopapa (il titolare realizzava quadri con scampoli di pelli) mandò una sua tavolozza rinsecchita al “Premio Rinascita”, per smascherare le nuove correnti, se fosse stata accettata. Lo confessò poco prima di trasferirsi a Milano, in via Cagliero. Nicola Carrino, oggi ottantaquattrenne, prestigioso scultore consacrato alla Quadriennale di Venezia e in altre esposizioni importanti anche all’estero, docente in accademie e licei, progettista della nuova Fontana dell’omonima piazza nella città vecchia, a quel tempo era poco più che un ragazzo, serio, taciturno, riservato. No, non si può dimenticare Taranto nè la sua storia, i suoi personaggi, il suo volto perduto, le sue vicende trascorse.