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mercoledì 25 ottobre 2017

Vito Lo Re, il principe del flicornino


 
A 16 ANNI ERA GIA’ UNA

LEGGENDA AMATA IN OGNI

PARTE DEL MONDO

 

Apprezzato da Mascagni, dal

tenore Tito Schipa, da Louis

Armstrong e da altri colossi,

ebbe tra i suoi estimatori

anche Primo Carnera e Tazio

Nuvolari, Nivola”.

Nel 1934 a New York la sua
 
tromba era il canto di tutti gli

italiani.

 
Vito Lo Re

 
La sua tromba mandò in delirio le platee. Nel nostro Paese e nel mondo. I suoi virtuosismi hanno fatto storia. Vito Lo Re, il principe dei flicornini, era insuperabile. Alcuni lo definivano il maestro dalla tromba che canta. In un gran concerto alla Carnegie Hall di New York gli tributarono cinque minuti di ovazioni. Quando era un giovane solista, in un’esibizione a Lecce il suo talento colpì Mascagni. L’autore della “Cavalleria rusticana” lo riascoltò stupito a Livorno nel ’34. Vito Lo re richiamava folle di melomani dappertutto. Era una stella, che ritroviamo in un libro del figlio Nicola: “La banda musicale negli anni Trenta in Italia”, edito in bella veste da Nuova Editrice Apulia; lo apprezzavano per la “perfetta intonazione, la tecnica innata, la foga interpretativa”... Ma con il passare del tempo la sua fama si è impallidita. Gli uomini dimenticano le glorie che dovrebbero custodire gelosamente.
Nel ’78 Il caso portò Nicola in un albergo a Chieti, dove il portiere di notte, leggendo il nome sul documento, chiese se l’interlocutore fosse un parente dell’artista che era stato acclamato in tutti i teatri più prestigiosi. E gli disse che da quelle parti vivevano ancora alcuni membri della banda di cui il padre aveva fatto parte, quella appunto di Chieti, che all’epoca veniva considerata una delle migliori al mondo. Nicola si mise sulle loro tracce per mietere informazioni, e intanto cercava anche qualche brano suonato da Vito, fra i tanti incisi in America e mai sbarcati in Italia; nel nostro Paese; a Colonia...: 78 giri con musica prevalentemente operistica legata al melodramma italiano. Dagli archivi della Rai di Pescara eccone quattro (otto marce del Gran Concerto Città di Chieti”). La scoperta incoraggiò Nicola, che nell’84, con rinnovate speranze, scrisse a Paolo Grassi, presidente dell’Ente, il quale, elogiando il lavoro che il mittente andava svolgendo per ricostruire la memoria del padre, rispose che le indagini da lui disposte non avevano dato buon esito. Nicola incrementò gli sforzi, scrisse agli abruzzesi d’America, agli Auditorium, ai teatri, dal Metropolitan alla Carnegie Hall di New York, all’Opera House di Chicago…; ad associazioni culturali, alle ambasciate, ai consolati, alle case discografiche; interpellò appassionati di musica italiani e stranieri, conoscenti emigrati negli Usa… E dire che la Banda di Chieti, in cui Vito Lo Re spiccava facendo onore all’Italia, era stata accolta ovunque con estasi: a Cleveland, a Cincinnati, a Buffalo, a Pittsburg, a Baltimora, oltre che a Washington, a Berlino… Un eminente ammiratore di quel miracolo confidò che nel ’34 a New York la tromba di Vito Lo Re “era il canto di tutti gli italiani”. Entusiasmò anche il grande tenore Tito Schipa, e riscosse il plauso di autorevoli critici musicali. All’età di ventitrè anni era già una leggenda. Il maestro Valenti lo sentì a Bologna e lo volle a tutt’i costi a Chieti. Vito Lo Re aveva una personalità carismatica – parola di Armando Bruni, capobanda a Squinzano, dove anche operò Lo Re, definito un portento, un interprete favoloso, che non negava mai un “bis”; il più grande e il più bello. E profumatamente pagato. Molto generoso, spesso invitava l’intera banda al ristorante; per rendergli omaggio si allestivano serate memorabili, durante le quali suscitava anche interesse fra le belle signore. Un giornale di Filadelfia riportò la notizia di una cena fatta in casa di un fan, Beniamino Gallo, “in onore di Vito Lo Re, prima cornetta della famosa Banda di Chieti”
Nel ’31 e nel ’32 quella Banda fu scritturata dal Comune di Sanremo e l’”Eco della Riviera” la esaltò, sostenendo tra l’altro che “il gran duetto dell’opera ‘Mignon’ ci ha permesso di applaudire l’egregio sopranino Vito Lo Re, il quale nella ‘Polacca’ di Chopin ha saputo emergere ad altezze tali da permetterci di definirlo bravissimo nel genere, degno dei maggiori successi”. Una novità, visto che quel pubblico era di solito difficile all’entusiasmo. Elogi anche da altri giornali: dal “Corriere della Sera” al “Resto del Carlino, a “L’Avvenire d’Italia” di Bologna, al “Berliner illustrierte Nachtausabe”, al “Wolkischer Beobachter”… Louis Armstrong dichiarò che avrebbe sempre ricordato “quel suono che udii a distanza in occasione del concerto a ‘Niagara Falls’, dove il cordone di sicurezza che circondava la Banda impediva ogni intrusione non gradita”.

Nicola Lo Re


Già da bambino – racconta Nicola nel suo bel libro, dotato di un cd con rare incisioni del ’34 - manifestò la sua passione per la musica, scegliendo subito come strumento la tromba. Rimasto orfano all’età di un anno, quando arrivò il momento indossò il grembiule frequentò la scuola senza alcun amore per i libri di testo. Il suo sogno era la tromba. Aveva appena sette anni e con la tromba andava alle elementari, dove irritava la maestra per farsi cacciare fuori dell’aula e indurre così la mamma ad assecondarlo. Raggiunse lo scopo, e già a 15 anni dette prova del suo genio esibendosi a Martina, Noci, Taranto, Castellaneta. “Era semplicemente fantastico rendere col flicorno soprano certe romanze prima che fosse inventato il flicornino in mi bemolle”. Travolgeva, coinvolgeva, appassionava, stregava il pubblico.
 
Eccolo davanti al maestro Ernesto Abbate, che come scrisse un cronista alla sua morte, nel ’34, “si era nutrito di musica con il latte materno e che oltre per il suo talento si fece apprezzare per la spiccata aristocrazia del suo gesto direttoriale e per la compostezza sul podio…”. Su indicazione di Abbate, Vito suonò una romanza della “Traviata”, e al termine fu stordito dalle acclamazioni; mentre lo stesso maestro chiedeva il “bis”. In quella banda il suo nome risaltava, moltiplicava i sostenitori. E intanto diventava amico di campioni dello sport, da Primo Carnera, che alla Banda di Chieti offrì una magnifica cena al “Victoria” di New York, a Tazio Nuvolari, detto “Nivola”, incontrato nel 1929 a Bologna.
Nel complesso bandistico di Chieti entrò nel ‘31, con un contratto di tutto rispetto. Più che meritato. Era un fuoriclasse stimatissimo, venerato. Per il quotidiano “Il Telegrafo” di Livorno, così si poteva suonare solo in Paradiso. Il “Volkischer Beobachter” di Berlino: “Meravigliosa la precisione dei clarinetti e dei flauti…”. Un elogio di Pietro Mascagni fu uno dei tantissimi ricevuti dai “chietini”: “Non c’è in Italia né all’estero una banda che possa paragonarsi alla banda di Chieti”.
 
Nel suo interessantissimo libro, ricco di immagini (una scattata il 20 novembre ‘36 nel bosco delle Pianelle, quando a Martina si cacciavano gli ultimi daini) e di testimonianze, scritto con stile scorrevole e senza enfasi, un monumento al padre, Nicola Lo Re (autore anche di “Africando”, pagine emozionanti sui propri viaggi in Africa in moto o a bordo di camion), fa la storia delle Bande non trascurando dettagli persino sulle divise dei suonatori e sulle ore libere che il papà trascorreva in famiglia; della sua passione per le moto, le auto e la caccia. In queste pagine parte dalla sera in cui decise di fermarsi a Chieti, spinto da una voce di dentro; ripercorre mille vie e riporta le tante voci ascoltate.

Avv. Nicola Lo Re

Vito Lo Re era figlio di Nicola, famoso avvocato di Lecce trasmigrato, per motivi elettorali, a Taranto, dove fu anche sindaco. Quando nel 1906 il principe del foro, amato per la sua limpidezza e per le opere realizzate, venne a mancare, la vedova si traferì con il figlio nella lussuosa villa che possedevano a Crispiano, ai margini del centro urbano. A quell’epoca in paese non c’erano scuole pubbliche e il piccolo Vito fu mandato a Martina Franca presso la zia Maria. Lungo il tragitto tra casa e scuola c’era la bottega di un calzolaio, che, avendo da giovane praticato l’arte dei suoni, durante le pause soffiava nella tromba, catturando l’attenzione del bambino, che spesso correva a sedersi a terra davanti al deschetto, rapito dalle note che fluivano dal “padiglione”. Un giorno – racconta Nicola - l’artigiano lo stimolò a provarci; e rimase sbalordito dai virtuosismi di Vito. Informò la zia e donò lo strumento al ragazzo-prodigio, destinato a primeggiare sui palcoscenici più importanti del mondo eccellente solista di flicornino.
Quando nel ’73 l’eccellente solista di flicornino, che aveva riscosso tanti successi, si spense dopo un’ultima esibizione alla Scala di Milano, furono in molti a piangere. Un amico scrisse su un mensile, che a soli 16 anni era già un portento. “Alle scuole elementari ci andavi tenendo sotto il braccio la tromba, quasi più grande di te… e a dieci anni cominciasti con la Banda di Martina, continuando con quelle di Noci, Castellaneta, Taranto…”. Era nato per suonare. Per deliziare chi amava la musica.




SERVIZIO SPECIALE  DI FRANCO PRESICCI PREMIO  GUIDO VERGANI



Franco Presicci, giornalista professionista, è nato a Taranto. Trasferitosi a Milano nel ’62, un anno dopo eccolo al quotidiano “l’Italia” come collaboratore delle pagine dedicate agli spettacoli, diventando poi vice-critico teatrale. E’ stato capo ufficio stampa di una casa discografica, della Celip e del film “L’Immensità” con Don Backi, Caterina Caselli, Nicola Di Bari…. Ha scritto per “La Gazzetta di Mantova” e per altri quotidiani. Entrato al “Giorno” nel ‘66, vi ha lavorato fino al 1995. Cronista noto e apprezzato, è stato spesso invitato a trasmissioni televisive pubbliche e private. Per “Fuori Orario”, condotta su Raitrè da Davide Riondino, negli anni ’80 ha realizzato anche un servizio sulle bische clandestine. Cinque anni fa ha preso parte al programma “I fatti vostri” di Giancarlo Magalli su Raidue, parlando di un famoso boss della malavita. Ha incontrato personaggi famosi, da Walter Chiari a Enrico Maria Salerno; da Carlo Giuffrè a Diana Torrieri, Emma Gramatica, Elsa Merlini, “Wanda Osiris, Ernesto Calindri, Arnoldo Foà… e clow’n di rilievo internazionale, tra cui il leggendario Charlie Rivel. Ha intervistato ripetutamente anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini in visita a Milano. Ha fatto l’inviato anche all’estero per clamorosi fatti di cronaca, come il delitto del catamarano, che nel 1988 impressionò l’Italia. Ha scritto due libri: “I cortili di Lombardia” e “Le cascine di Lombardia”. Nel’83 gli è stato assegnato (a Tito Stagno per la Tv) il premio “7 Stramilano 7- Rank XeroX” per gli articoli scritti sulla “maratona dei cinquantamila”, ricevendo un milione in monete d’argento coniate in occasione delle olimpiadi di Los Angeles; e tre anni fa il Premio Guido Vergani alla carriera.














  
Locandina di un concerto






Elezioni politiche 1892-Collegio di Castellaneta. Lo Re per Ginosa 183 voti



Un giornale elogia la banda




Lo Re ragazzo


Elenco Sindaci di Taranto-Lo Re 11° -1^ fila












Un angolo interno della villa Lo Re di Crispiano




Il filocornino di Vito Lo Re


mercoledì 18 ottobre 2017

Affascinante, Liana Orfei, regina del circo


AVREBBE VOLUTO FARE GIULIETTA

MA SAPEVA DI NON AVERE IL FISICO



Liana Orfei


Da attrice ha ricoperto diversi ruoli, al cinema,

in teatro, in televisione. Avrebbe tanto voluto
 
interpretare la parte della Loren nel film

“La ciociara”.

Era ancora piccola quando entrò per
 
la prima volta in una gabbia. Nel circo ha fatto
 
anche il clown. In una serie di sei trasmissioni
 
televisive, raccontò la vita che si svolge sotto
 
e attorno allo “chapiteau”.







 
Franco Presicci
 

Bella, affascinante, una mercedes tra l’indice e il medio; il gomito destro appoggiato sul tavolo e la mano sotto il mento; i capelli d’oro con venature d’argento, soffici e vaporosi, raccolti dietro la nuca; un sorriso luminoso; un mini-midì di Massimiliano Giornetti e una camicetta di cashemire. 
Liana Orfei
Eccola, Liana Orfei, regina del circo, sulla piattaforma della sua casa viaggiante, a poca distanza dal tendone del suo circo, accampato in via Melchiorre Gioia, di fronte alle ex Varesine, spazio che allora ospitava “chapiteaux” e giostre. L’ammiravo, Liana, stando comodo su una poltrona a pozzetto, con accanto un credenzino barocchetto, quando lei lanciò a Nando, che stava all’interno, l’invito a preparare un caffè. Mentre la figlia che giocava nel ruolo di capostazione con un gruppetto di coetanei in quelli di controllore e passeggeri. Evidentemente non erano stati ancora folgorati dall’idea di entrare nella gabbia della tigre o di volteggiare sul trapezio, a un’altezza da capogiro. La ragazzina si staccò dagli altri e chiese alla mamma 100 lire, forse per fare un giro sull’otto volante. “Tesoro, rivolgiti alla nonna: non ho con me nemmeno il borsellino”. Era gentile, cordiale, Liana, squisita conversatrice. Nessun atteggiamento da diva, semplice, spontanea nel raccontare le sue tante esperienze professionali. Seguì per qualche minuto con lo sguardo amorevole la figlia che si allontanava e mi disse: “Se un giorno mi esprimesse il desiderio di affrontare le belve, piuttosto che soddisfarla l’ammazzerei. Né le permetterò di andare sul trapezio. Sapesse che cosa significhi essere sospesi lassù e poi tuffarsi e arrotolarsi per congiungersi con il partner che dalla parte opposta si avvicina a te per agganciarti. E che cosa significhi per quelli che sono giù a trepidare”.
Esibizione al circo
Mi trattò come un amico. E aprì uno spiraglio sulla sua vita privata, “se mai ne ho avuta una”. Mi parlò del cinema, della televisione, del teatro e delle parti che vi aveva svolto. E del circo, dov’è nata, in una famiglia che allora aveva raggiunto i 158 anni sulla pista. Era il 18 ottobre del ’70, quando la incontrai. Mi attese sul terrazzino del carrozzone, che stava a pochi metri dall’angolo con via De Gasperi. E dopo poche battute preliminari cominciò a confessarsi. “Ero piccola quando, sbarazzina, incosciente, quasi matta, affrontai per la prima volta i felini, che obbedirono agli ordini senza esitazioni”, forse anch’esse attratte da questa splendida amazzone. “Ma arrivò il momento in cui, stando tra quelle sbarre, sentii che qualcosa era cambiato. Prima era esaltante, emozionante, ma dopo la nascita della bambina avvertii una sensazione diversa. Il pensiero di poter finire sbranata mi sconvolse”. “Che cosa prova esattamente un domatore quando è di fronte a un animale che all’improvviso può saltargli addosso e fargli male?”, le domandai. Tanta paura. Soprattutto quando si accorge che tigri o leoni quella sera hanno la luna a rovescio e gli si deve comunque imporre di non fare capricci. Io non credo a quei domatori che affermano il contrario”. Liana nel circo ha fatto di tutto. Anche il clown. E mi descrisse la soddisfazione di questo personaggio simpatico, pirotecnico, imprevedibile quando vede ridere i bambini, anche se lui, per motivi personali, è triste. Le sue “gag”, le sue mosse, i suoi stessi abiti, le sue scarpe, che sembrano barche, il suo volto dipinto divertono anche i grandi, “che vengono al circo con la scusa di accompagnare i figli”. Interessanti i ricordi di Liana, e piacevole il suo modo di rispolverarli. Parlò degli anni in cui si occupava del dressaggio dei cavalli e pungolava il re della foresta per regalare emozioni al pubblico, offrendomi con grazia la seconda mercedes.
Liana Orfei il  10 ottobre 1970
Elefante al circo


Qual è il destino del circo?”. “Il circo vivrà finchè ci saranno bambini, e i bambini ci saranno sempre. A noi il compito di presentare numeri sempre più perfezionati. Non si può, come una volta, schierare elefanti e scimmie, gorilla e jene. Occorrono idee nuove. La vera minaccia in Italia viene dalla mancanza di piazze. Fatta eccezione per Milano e qualche altra città, ci confinano a una trentina di chilometri dal centro abitato. Non così in altri Paesi. Mesi fa sono stata a Zurigo per vedere il circo ‘Kric’. Lo sa dov’era attendato? Nella “Place de l’Operà”. “Per lei, Liana, che cos’è il circo?”. “Un mondo splendido, grande, ritmico, pulito, rutilante, dove l’abilità è essenziale. Qui la bustarella non esiste. Non puoi andare sul trapezio con la raccomandazione del tizio che conta. I numeri vengono selezionati con molto rigore e si premia la bravura. Nel circo c’è gente che guadagna anche 200 mila lire per sera”. La incalzai: “Lavorando nel cinema e alla televisione ha mai sentito il desiderio di tornare a casa? E se avesse ceduto che ruolo avrebbe voluto rivestire?”. “Quello del clown”. “Tra le sue aspirazioni, c’è quella di interpretare se stessa al cinema o alla tv?”. “Lo sto già facendo. Sto registrando una serie di trasmissioni sulla mia vita e sul circo.
Cercherò di far capire al pubblico com’è deliziosa, emozionante, varia la vita del circo; e lascerò da parte quelle fasi della mia vita privata che possono condensarsi così: innamorata a 12 anni, fidanzata a 14, sposata, madre a 18, libera a 20. Piacerà al pubblico vedere un’artista come me, ricca di tante esperienze. A Parigi mi conoscevano come attrice e si sono meravigliati nello scoprire che ero quella che lavorava nel circo”. “Prova disagio in televisione, dove il pubblico, quando c’è, è fatto di quattro gatti, mentre al circo realizzava i suoi numeri davanti a centinaia e centinaia di spettatori?”. “Forse un disagio tecnico, per il fatto che ogni movimento è prestabilito, ma l’eccitazione non manca se pensi che al di là di quel puntino rosso ci sono milioni di persone che sedute in poltrona ti stanno guardando”.
Liana Orfei
Liana si accese un’altra sigaretta, seguì le spirali di fumo che salendo si allargavano, ma fu distratta dal fischio della figlia che dava il segnale di partenza a un treno immaginario. Le chiesi se avesse programmi teatrali. “Sì, devo provare una ‘pièce’ inglese con Dapporto: ‘Il visone viaggiatore”, che è stata in cartellone per quattro anni a Broadway, tre a Parigi e quattro a Londra”. “C’è un personaggio che avrebbe voluto rappresentare?”. “Quello di Sofia Loren nel film ‘La Ciociara’. E Giulietta, anche se so di non avere il fisico adatto. Giulietta m’interessa perché mi piacciono le grandi passioni, quelle capaci di distruggerti la vita. Mi piacciono i drammi, le situazioni romantiche”. “E di Liana Orfei che cosa le piace?”. “Sono autocritica e autolesionista. I miei amici lo sanno”. Sono passate due ore dall’inizio della conversazione, e starei volentieri ancora a conversare con Liana. Ma la vita del circo concede soste brevi anche a chi lo guida. Sentii il nitrito di un cavallo, accompagnato dal barrito di un elefante. Si era già accesa la pista e il pubblico si stava già incolonnando davanti alla biglietteria. Immaginai i clown’s al trucco, la cavallerizza vicina ai quadrupedi, sulla groppa dei quali avrebbe danzato e fatto piroette da equilibrista fuoriclasse. Liana m’invitò a rimanere per lo spettacolo. Mi piacerebbe, perché il circo, con la sua magia, la sua festa di colori, la musica, le mitragliate di luci, le prove di coraggio e destrezza che i protagonisti danno ogni sera, mi attrae sempre. Ma avevo un altro impegno, ringraziai e salutai la ninfa, allontanandomi dall’enorme tendone percorso da decine di bandierine sventolanti e mi promisi di tornare per sedermi in prima fila, dove bisogna difendersi dagli schizzi di segatura provocati dagli zoccoli dei cavalli al galoppo.













mercoledì 11 ottobre 2017

Festeggiata la “Martin Luciano & figli”


Fiori per il compleanno
 



HA COMPIUTO 80 ANNI

SUL NAVIGLIO GRANDE







Graziana Martin e Luciana Savignano




Il fondatore, nato a Padova, era

arrivato a Milano quando aveva

sedici anni. Realizzò il progetto

di un’impresa tutta sua, facendo

sacrifici.

Il suo negozio, “Tutto per Operai”,

pieno di abbigliamento militare,

jeans, sacchi di juta ed altro, attira

moltissimi giovani, oltre

agli adulti e personalità.








Franco Presicci


Ci sono storie che andrebbero raccontate anche a scuola. Per far conoscere ai giovani la genialità di personaggi esemplari. Tra questi, Luciano Martin, la cui impresa è stata festeggiata alcuni giorni fa sull’alzaia Naviglio Grande, dove al civico 46 si trova il negozio di abbigliamento militare e jeanseria da lui aperto 80 anni fa.
Luciano Martin
Una folla di amici ed estimatori hanno brindato con rappresentanti della vigilanza urbana, dell’Arma dei Carabinieri, della politica, dell’arte (tra cui Gigi Pedroli, grande acquafortista e cantore in vernacolo dei luoghi e delle figure di una volta). Madrina l’ètoile della Scala Luciana Savignano. Esploriamo con entusiasmo questo percorso luminoso, che s’interseca con le vicende di Milano e in particolare con quelle del Ticinello, il canale che con le sue sponde, passando gli anni, ha cambiato faccia: trasmigrati i meridionali e gli artigiani; chiusi tanti studi di pittori, anche per gli affitti alle stelle, sono arrivati i profumi della cucina e del caffè, senza tuttavia sottrarre fascino a questo angolo antico, amato dal poeta Alfonso Gatto, dagli scrittori Giuseppe Pontiggia e Carlo Castellaneta; dai giornalisti Indro Montanelli, Guido Vergani e Gaetano Afeltra, che, nato ad Amalfi, palpitava per il Naviglio Martesana, che scorreva sotto la sua prima pensione, da lui abitata nel ‘38. Luciano Martin era nato a Padova, nel luglio del 1907. Giunto all’età di sedici anni, sollecitato da una gran voglia di fare, di costruirsi un avvenire, decise di salire sul treno per Milano, città che accoglieva volentieri chi aveva idee e buone doti. Durante il rodaggio accettò ogni lavoro, se onesto. Braccia robuste e spirito forte, era in grado di sopportare qualsiasi peso e non si rifiutò mai di farlo. Conobbe un importatore di juta dall’India con magazzino a Genova nella zona portuale: due parole, una stretta di mano e Luciano era già nel capoluogo ligure a lavorare con un incarico di responsabilità tra camalli e gente venuta dal Sud. Infaticabile e previdente come la formica, e generoso, mandava parte del guadagno a casa, dove aveva il papà e quattro sorelle, trattenendo per sé il poco che gli serviva per sostenersi. Ma la fortuna è volubile e rivolse la sua premura altrove, per colpa delle mani bucate del titolare dell’azienda. Luciano gli offrì un bastone prosciugando i propri risparmi; ma lo scafo imbarcava troppa acqua. Il timoniere gli restituì l’ossigeno e toccò il fondo. Amareggiato per la sconfitta dell’uomo che per lui ormai era come uno di famiglia, Luciano riprese la via per Milano, acquistò un motocarro e avviò un’attività nella zona di Porta Genova. Coltivando il progetto di un’impresa tutta sua. E fatica dopo fatica, un sacrificio dietro l’altro, quell’idea avanzava, prendeva forma, si arricchiva di dettagli, mentre Luciano si dedicava allo scambio di merci, vivendo e affannandosi in un magazzino, fornito anche di branda. I suoi passi si allungavano.
Graziana Martin tra i Vigili Urbani
Si iscrisse alla Camera di Commercio; e nel ’43 – è riferito in un efficace profilo firmato dalla moglie Bruna e dai figli Graziana e Paolo – gli “viene rilasciata la prima licenza per la compravendita di articoli da rigattiere all’ingrosso e al minuto”. Luciano non aveva una ragazza: la bottega e i pensieri non gliene davano il tempo né l’occasione. Ma nella latteria della signora Lena in Ripa Ticinese, dove andava a mangiare, Cupido scoccò la sua freccia: Bruna, impiegata nella veste di segretaria in un noto studio legale, era splendida, e anche elegante, gentile, dolce. Il suo ideale? Ma certo. Nel ’45 le nozze. Presero casa in alzaia Naviglio Grande, in uno stabile che tra l’altro aveva un magazzino nel cortile;
Bruna e Luciano Martin
Bruna lasciò l’impiego per collaborare con il marito. La guerra aveva smesso di tuonare da poco. Milano era straziata. Devastate la Scala, la Galleria, piazza San Fedele…; violentata la clausura del Convento della Visitazione in via Santa Sofia; decapitate le guglie del Duomo; sbriciolata una scuola elementare a Gorla (un centinaio di morti e altrettanti feriti), fame e disperazione ovunque, desolazione ... Ma bisogna reagire, rimboccarsi le maniche. In alcuni campi della città era ammonticchiato materiale ferroso, tessile... abbandonato dagli americani. Luciano Martin arruolò operai e incrementò la compravendita di sacchi di juta e altro; dalle Ferrovie dello Stato comprò i teloni dismessi dei carri; dalle torrefazioni di caffè altri sacchi; nel magazzino introdusse le macchine per cucire, che curava assiduamente, riparandole se si inceppavano, sotto gli occhi affettuosi di Bruna, che faceva ritmare il piede sul pedale della sua. L’attività si era estesa, lo spazio non era più sufficiente a contenerla.
Paolo Martin e i Carabinieri
Nacque il primo figlio, Paolo. Era ormai piccola anche l’abitazione, e si trasferirono poco più in là, sulla stessa alzaia, al civico 58, dove tuttora spiccano le loro insegne. Nella famiglia Martin c’era armonia, amore, comprensione. Era stimata da tutti, tanto da poter ottenere dalla banca un finanziamento con la sola garanzia dell’affidabilità, della ++ chiarezza morale. Per quell’uomo, Luciano Martin, testimonianza di laboriosità, creatività, rettitudine, bastava la parola. Ed ecco il negozio, con arredamento prestigioso; sul fronte dello stabile, in alto, a caratteri vistosi, la scritta; “Ditta Martin Luciano”. Sulle vetrine, un’altra scritta: “Tutto per Operai”. Le richieste, non solo di juta, arrivavano da ogni parte e da aziende importantissime. Clienti anche tra persone note.
Vittorio Sgarbi nel negozio
Vittorio Sgarbi entrò per acquistare una giacca. Amici del negozio il chitarrista Alex Britti, la cantante Ivana Spagna, l’ex corridore Ivan Capelli, l’ex giocatore del Milan Boban... Un negozio famoso, che attirava anche i giovani. Si trovavano a loro agio “tra camicie militari, zaini, giacconi della Marina, jeans… Negli anni 70 è stato un punto d’incontro e di aggregazione”. L’approvvigionamento di jeans era visto di buon occhio soltanto da Bruna, non da Luciano, che comunque non si opponeva. Si ricredette quando vide la valanga di ragazzi arrivare non soltanto da Milano. E con i ragazzi, per acquisiti o per curiosità, anche migliaia di adulti.
Ivana Spagna con Bruna Martin
Ne parlavano i giornali e la televisione, compresa quella svizzera. “Il Giorno” dedicò pagine intere. Il giorno della festa Luciana Savignano ha detto di aver conosciuto l’emporio passeggiando lungo il naviglio e Graziana perché “grande appassionata della danza”. Elogi da Paolo Seris, del Comune, in un breve intervento al microfono; da Elvira Fortezza, di Artigiani in Fiera; da Marco Accorsero, segretario generale Unione Artigiani, per il quale questa è un’azienda-simbolo dell’artigianato milanese e lombardo e della caparbietà degli imprenditori capaci di resistere sul mercato per 80 anni. Sfogliando il calendario (in prima pagina una decina di righe della Savignano), dato in regalo agli invitati, dalle immagini di sacchi ammonticchiati; di scaffali zeppi di stoffe; di uomini che sistemano o prelevano giacconi, stivali, gavette o guidano una motocicletta con il cassone carico o suddividono i teloni in buoni e rotti; di donne che manovrano Necchi e Singer; di gruppi allineati davanti all’obiettivo dimostrando che qui l‘ambiente è familiare…, s’intuisce il lavoro frenetico di quest’azienda, cresciuta grazie ad un uomo geniale, Luciano Martin, che, nato nella città di Sant’Antonio, non si è mai fermato, considerando sacro il lavoro. Nella biografia impaginata nel calendario i tre autori evocano anche il volto perduto del Naviglio Grande: i barconi, che trasportavano sabbia e marmi di Candoglia per la Fabbrica del Duomo; gli “atelier” dei pittori; i laboratori degli artigiani; i ragazzi che facevano il bagno di notte per non farsi sorprendere dai “ghisa”, vigili e intransigenti; quelli che nelle stesse acque lanciavano la lenza (forse qualcuno lo fa ancora, magari soltanto per sport)… “Ecco, sono gli anni 90: cambiano le mode, i gusti, la gente, le abitudini -: questa no: il negozio ‘Tutto per Operai’ è ancora lì”. Luciano, il costruttore di questo regno, è scomparso; anzi no: sopravvive nel cuore di quanti lo hanno seguito ammirandolo. Il suo nome è da annoverare tra quelli che hanno contribuito a far grande Milano. La città dal cuore in mano, che non respinge chi ha le carte in regola.



mercoledì 4 ottobre 2017

A 96 anni è scomparso Peppino Cito



FIGURA NOTA A MARTINA
PER LE SUE “MANI D’ORO”
 
Peppino Cito


Nella città dei trulli fu il primo
a portare la televisione. Installò
un’antenna sulla basilica di San
Martino. Faceva trulli e statuine
di terracotta. Preciso e riservato.





Franco Presicci

Nella città dei trulli quasi conoscevano più lui che il sindaco. O il rettore della basilica di San Martino. Nello scampolo del suo ex emporio, che si era tenuto per incontrarvisi la sera con gli amici più stretti, per lunghe partite a scopone, esponeva i suoi quadri, le sue sculture; conservava una raccolta di fotografie scattate nei Paesi che aveva visitato (Yemen, Cina, Stati Uniti…), le statuine del presepe, allineate sul piccolo forno che gli serviva per cuocere i suoi lavoretti in argilla.
Emporio di Peppino Cito
Peppino Cito, deceduto mesi fa a 96 anni, era un personaggio. Portò per primo la televisione a Martina Franca; installò un’antenna in cima alla chiesa madre. Era maestro nel ridare voce a radio e televisioni a valvole e funzionalità a ogni oggetto deteriorato o infranto; uomo dal carattere forte ma generoso, sempre disponibile. Una mattina all’alba si piazzò davanti al portone dell’abitazione di un amico e senza fare il minimo rumore gli cancellò tutti gli scarabocchi che i “fans” più scatenati di carnevale gli avevano impresso con una sostanza che appariva indelebile. Maneggiava tavolozza e colori; realizzava scatole originali e raffinate; costruiva in legno e in piccole dimensioni villette e chiese, ottimi trulli in miniatura dotati di panche di pietra, siepi, fumaioli, cancelli... In un capannone assediato da alberi e dalla vigna nella sua campagna sulla via per Taranto trascorreva ore, giornate in piena attività. Attorno alla vasca con i pesci rifece, in età avanzata, tutto il pavimento a mosaico. I suoi “tromp l’oeil” dominano le pareti di diverse case. “Ha le mani d’oro”, mi disse un signore che incontravo spesso nel ringo. Un giovanotto che gli aveva liberato un locale da robe destinate alla discarica rifiutò il compenso in cambio di un ritratto della madre.
Peppino Cito
Cito l’aveva vista soltanto una volta alcuni anni prima, e si affidò alla memoria. Il risultato fece onore alla sua reputazione. Gli parlai della mostra internazionale dei fischietti di terracotta che si svolge il giorno della festa di sant’Antonio a Rutigliano, due passi da Bari; e senza esitazione si disse pronto a seguirmi. Rimase stupito ed ammirato alla vista di tutte quelle bancarelle popolate di galli, lumache, pagliacci suonatori di tromba o di violino, personalità politiche, dello spettacolo: migliaia, tutti d’argilla e di ottima fattura. “Questi figuli sono scultori, artisti”, commentò osservando l’espressività di un maresciallo dei carabinieri alto 20 centimetri e con un paio di baffi arricciati all’insù. Al ritorno m’invitò a cena nella sua villa, ma tra spaghetti e polpette lo vidi un po’ distratto, quasi assente: il giorno dopo mi mostrò un contadino con una fascina in spalla seduto sulla schiena di un asino guidato da un ragazzo, perfettamente somigliante al figlio di un comune amico. Mancava il fischietto. “Quello è difficile farlo.
Il Ringo
Quando avrò appreso bene la tecnica. lo sistemerò al posto della coda dell’animale. Fra qualche giorno il quadrupede avrà il suono”. Aveva avuto l’”hobby” della caccia e amava raccontarlo. Mi parlò di un suo conoscente che aveva un’abitudine a dir poco antipatica: si nascondeva con il suo Fido, e quando un volatile, colpito a morte, stramazzava a terra, esortava il “collaboratore”, bene addestrato in quell’arte, ad impossessarsi della preda, anticipando gli altri cani, che tornavano dai padroni con l’aria sconsolata. Per il resto della comitiva quelle sparizioni rimasero un mistero, ma Peppino non pensò certo a bravate del monachicchio: l’indizio acquisito se lo tenne per sé, e si limitò a suggerire al gruppo di cambiare segretamente postazione. Rispolverando questa storia, alimentava polemiche anticaccia; ma rimaneva nella sua trincea. Gli piaceva battagliare anche quando aveva torto. E voleva vincere sempre. Si giocasse a scopone o a bocce. Se l’avversario, per fortuna o per bravura, guadagnava punti, il suo viso si oscurava.

Peppino Cito
Era discreto, riservato. Quando si inaugurò la nuova sede di “Umanesimo della Pietra”, la bellissima rivista di storia, annuale, in carta patinata, che vanta autori di alto livello, regalò un suo piccolo quadro da lui dipinto per l’occasione, raffigurante la via Caracciolo in cui il periodico si era trasferito dal ringo. Non lo consegnò nel corso della cerimonia, ma alla chetichella al direttore Nico Blasi. Una sera notò che l’orologio della torre di fianco a San Martino era fermo. “Sonnecchia da tempo”, osservò Franco, il maresciallo dell’Aeronautica in pensione che quando giocava indovinava le carte che l’altro aveva in mano. E Peppino promise che il misuratore del tempo avrebbe riavuto il movimento. “E’ solo un ornamento inutile, se ha le lancette bloccate. E poi mi danno dispiacere le cose che si fermano”, intervenne Pierino Pavone, ex venditore al mercato di Cutrofiano, nel Leccese, di cappotti che confezionava a Martina, e profondo conoscitore di papa Galeazzo, prete stravagante, furbo e bonario, facile alla bestemmia e alle maledizioni vissuto o inventato nel XV-XVI secolo (non ci sono atti anagrafici in cui sia registrato); forse una maschera o una metafora di un potente personaggio realmente esistito. I “cunti” e le barzellette, i motti che lo danno residente a Lucugnago, nei pressi di Tricase, furono raccolti nel 1912 in un Breviario, che portava il suo nome e che Pavone, uomo saggio, sereno, affabile, amava citare tra una settanta e un settebello. Peppino sembrava una corazzata. Ma anche quelle possono andare a fondo.
Peppino Cito
Sapendosi prossimo all’ultima stazione, ha chiesto alla figlia di avere cura delle cose che lasciava. A me aveva promesso un gruppo di “casèdde”, ma non ha potuto mantenere la promessa: gli anni che si portava addosso gli rendevano difficile raggiungere il suo ex laboratorio nel ringo, la via lunga e stretta che da piazza Roma va a piazza XX Settembre, bella con i suoi portici e i suoi negozi. Ora, che se n’è andato sono in molti a ricordare la sua biografia. Quando compì i sedici anni prese il treno per Milano, forse una metà sognata da piccolo. Lì venne arruolato alla Geloso, la ditta che costruiva radio e registratori, e si fece subito apprezzare anche per la sua volontà e lo zelo. Conobbe tanta gente, che lo invitava a passare la serata in balera in allegria, ma lui era in terra meneghina per imparare, e non si concedeva passatempi. Nelle ore libere, a volte, preferiva scoprire il fascino della città, dai navigli, che tanti vorrebbero riaperti, ai palazzi Liberty di corso Venezia.
Peppino Cito in gita
A quei tempi sulle sponde del Naviglio Grande abitavamo quasi soltanto i meridionali. Poi arrivarono gli intellettuali, i professionisti, i benestanti, gli artisti, e gli affitti subirono un’impennata, quindi chi aveva un reddito magro dovette far fagotto. Lo testimonia il grande acquarellista e cantautore Gigi Pedroli, che sull’alzaia ha un’ampia sala-esposizione e uno studio (l’altro ce l’ha alla Fornace Curti, in via Walter Tobagi, a poca distanza). Pedroli della Montmartre milanese conosce storia, misteri e segreti; e si amareggia ricordando gli artigiani (il fabbro, l’argentiere, il camiciaio…) che lavoravano da queste parti, dove finalmente sono molti i turisti che si fanno vedere per ammirare la via d’acqua e il suo incanto indescrivibile Peppino Cito, quando decise di rientrare a Martina e aprire il suo emporio diventato poi noto dappertutto, quella Milano se la portò nel cuore. E dipinse gli angoli ai quali si era affezionato di più: i cortili con le lenzuola stese e i fiori policromi e le cascate d’edera, i tetti, i comignoli, i vicoli, la gente, che in questa città corre sempre per andare non si sa dove…. Era molto legato alla sua Martina. Un giorno gli domandai perché avesse lasciato la terra del Porta, che sicuramente a uno come lui avrebbe dato tanto. Mi rispose senz’alcuna esitazione che i martinesi, come gli uccelli, tornano sempre al nido.