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mercoledì 29 novembre 2017

La gente a Taranto legge Kafka




PALCOSCENICO VIA D’AQUINO


FONDALE LA CASA DEL LIBRO

Conferenza stampa in piazza Giovanni XXIII


Molti gli spettatori a Maratona k
       
la sera del 18 novembre.

E molti quelli che si sono

avvicendati al microfono per

dare voce alle Metamorfosi”

dello scrittore boemo.

Ottima idea, successo meritato.



Franco Presicci




Mimmo Mongelli, il vignettista Nicola Pillinini, Mandese
Il cielo ha tenuto la faccia scura per quasi tutta la giornata, sabato 18 novembre, minacciando barili d’acqua accompagnati da botti e lampi. Ma i tarantini non si sono lasciati impaurire; e, armati di ombrelli, si sono presentati, alle 18.30, alla “Maratona K”, prima alla spicciolata, poi a frotte, con grande sollievo del direttore artistico Mimmo Mongelli, del suo vice Alfredo Traversa e del responsabile organizzativo Massimo Cerbera, che in una conferenza-stampa in piazza Giovanni XXIII, seduti a un tavolo del Bar Italiano, avevano dettagliato il programma e indicato il luogo scelto per la manifestazione: il salotto buono, via D’Aquino, di fronte alla Casa del Libro di Nicola Mandese, dove chiunque avrebbe potuto leggere qualche pagina della “Metamorfosi” di Franz Kafka, lo scrittore boemo di lingua tedesca e di origine ebraica. E non sono stati pochi quelli che si sono fatti avanti, dimostrando che nella città dei due mari le iniziative culturali non vengono accolte con indifferenza. La lettura collettiva dell’autore de “Il Processo”, de “Il Castello”…, che sottintendeva anche l’invito ad arricchirsi culturalmente, e la scelta del teatro, con fondale la Casa del Libro, le vetrine allestite a tema, sono piaciute, e molto. Anche perché il negozio è inserito nell’elenco delle librerie storiche d’Italia per il suo secolo di vita. Una storia che ebbe inizio nel 1882, quando il nonno, omonimo di Nicola jr., attuale titolare della libreria, venne da Nola nella “culla” di Archita e si dedicò al pianeta libro, tra l’altro pubblicando, per la Puglia, con Vallardi, il famoso Melzi, il “vocabolario per tutti illustrato”, stabilendo contatti e amicizie con i più notevoli personaggi dell’epoca, che gli chiedevano consigli e chiarimenti.
Il cav. Antonio Mandese, 2°da sinistra con gli occhiali

Tra questi, Vito Forleo, a cui si deve “Taranto dove la trovo” (in un capitolo osserva che “la gloria è una divinità crudele: Giovanni Paisiello lasciò la città natale, nel 1754, e non la rivide più”); e l’avvocato Pietro Acclavio, figlio di un giureconsulto, Domenico, tenuto in grande considerazione dal governo borbonico. Quando il principe del foro espresse il desiderio di disfarsi dei numerosi volumi ereditati, Nicola “senior” gli suggerì di regalarli alla città; e sorse così la biblioteca civica, inaugurata il 4 novembre del 1893. La Casa del Libro, aperta dal cavalier Antonio, papà di Nicola jr, ha ancora l’insegna con i caratteri dorati originari. Un giorno una comitiva, a Taranto per la “Settimana Santa”, si fermò davanti al civico 142, e una signora, forse rimpatriata dopo un lungo esilio, confidò di essersi nutrita da giovane di libri attingendo da questi scaffali.




Casa del libro
Poi, alzando lo sguardo, commentò: “Che bello, tutto come prima” All’epoca della trasmissione televisiva “Giochi senza frontiere”, la cui prima edizione si svolse nel ’65, arrivando a 17 milioni di telespettatori con venti nazioni in gara, da Mandese entrò il poeta Rafael Alberti, che fece da battistrada al surrealismo spagnolo. Cercava un libro, Nicola glielo dette in omaggio e lui sfoderò i pennarelli e gli “copiò” il volto su un foglio. A sollecitare la memoria di Nicola jr. emergono curiosità, fatti, personalità, atmosfere: “Il mio papà, Antonio, conobbe Gabriele d’Annunzio e Riccardo Bacchelli, invitato a Taranto nel ’70 per un convegno di studi sulla Magna Grecia. Conobbe anche Ignazio Buttitta, di Bagheria, poeta in vernacolo siciliano di spiccato impegno sociale; Salvatore Quasimodo; Giuseppe Ungaretti; Eduardo, che era in cartellone al teatro Orfeo…”.
Nicola Mandese, il prof Sabatini, Raffaele Mandese




 
Con il fratello Raffaele Nicola ha presentato “en plein air” un libro di Francesco Sabatini, edito da Rizzoli, presente l’esimio docente, socio e poi presidente dell’Accademia della Crusca (molto richiesto il suo dizionario della lingua italiana realizzato con Coletti): evento ancor più rilevante, essendo Sabatini molto consultato nella Trasmissione televisiva “Uno mattina”, dove la domenica alle 9 risolve i dubbi della nostra grammatica e dei nostri modi dire.
Dopo Sabatini, Valeria Morricone, che, conversando, ha chiesto a Nicola di accompagnarla alla Sem; e lui ha dirottato verso un altro locale, perché quello, famosissimo, prestigioso, di don Ciccio Messinese, che tra l’altro aveva ospitato eleganti feste danzanti dei Lyon’s e del Rotary, era ormai rintracciabile in qualche raccolta di cose perdute o in “Taranto com’era” di Nicola Caputo.
Nel ’78 la nascita di un’altra sede della Casa del Libro, in viale Liguria, con gli uffici della editrice. Il 1982 è l’anno della “Gerla d’oro” del Premio Bancarella al cavalier Antonio, come “Anziano fra i librai d’Italia”.

Nicola Mandese riceve un premio
Nel ’95 vedono la luce i volumi “Taranto dagli ulivi agli altiforni" e "L’età dell’acciaio” dello storico tarantino Roberto Nistri, e “L’anima incappucciata” di un altro storico, Nicola Caputo. “Il 2009, l’avvio della collaborazione con l’Università”. I titoli di Mandese editore sono una ricchezza. Ricordiamo le pagine curate dal compianto Giuseppe Franco Bandiera (“Taranto tra una guerra e l’altra” e “Taranto la città al borgo”), che fu direttore del Circolo Italsider alla masseria Vaccarella, dove sviluppò decine di idee interessanti: le conferenze, sul cinema, di Morando Morandini, critico del quotidiano “Il Giorno”; e di Gianni Brera, venuti apposta da Milano; il “Teatro sull’erba” con rappresentazione di Luca De Filippo.
Ed ecco il vocabolario della parlata tarantina di Nicola Gigante; le poesie di Claudio De Cuia e la sua Grammatica del dialetto tarantino; ”Zazzareddire” di Alfredo Nunziato Majorana, poeta ed etnologo, che fu in contatto con Gerhard Rohlfs, autore della “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”; e con l’etnologo Ernesto De Martino.

Giacinto Peluso e Nicola Mandese
Ed ecco ancora una “Storia di Taranto” in veste pregevole; e “Taranto, il Museo Archeologico”; oltre ai volumi di Giacinto Peluso, che hanno raccontato la regina dello Jonio con esemplare semplicità di linguaggio e dovizia di particolari. Un tempo, verso il tramonto dell’800 bagliori di luce su via D’Aquino – annotava Giovanni Acquaviva – provenivano dalle vetrine del negozio di tessuti di Nicola D’Ammacco, noto in tutta la città, e non solo; da quelle di Talmone, specialista in cioccolato; della drogheria Gambardella; dell’Antica ditta di casalinghi di D’Addario; della Dregher; del negozio di Francesco Quaratino, che tra i suoi clienti contava la Real Casa e il duca d’Aosta…”Mio padre mi parlava di Francesco Rispoli, che era orgoglioso dei suoi banchi pieni di cozze nere, pelose, ostriche e altri sapori del nostro mare. Nell’interno del Palazzo Rochira, proprio di fianco a noi c’era “Nicolino Mustazzone, detto così in virtù del suo pelo cespuglioso: lustrava le scarpe e vendeva i prodotti che servivano allo scopo. Papà lo aveva letto o appreso da un vecchio”. Personaggi di una volta, come Vincenzo Carrieri, che qui aveva la sua “Sala di Toilette, la più elegante, la più preferita”. Insomma, via D’Aquino, dove generazioni di tarantini hanno fatto la ronda “’nnànd’e réte” (onore al poeta Alfredo Lucifero Petrosillo) da piazza Maria Immacolata, prima Giordano Bruno e prima ancora Italo Balbo, all’Ammiragliato, è sempre stata il tratto più frequentato e ambito. Fu nel 1892 che l’amministrazione comunale guidata da Carlo Prinicerj, per rendere omaggio a un illustre cittadino, che scrisse le “Deliciae tarantinae”, le assegnò quel nome. D’Aquino era molto amato e riceveva nella sua casa uomini di cultura, come a Milano la contessa Clara Maffei, che aprì il salotto in via Monte di Pietà nel 1838, trasferendosi poi in via Bigli nel 1850. Una via nobile, via D’Aquino. Per qualcuno l’emblema della città. Felice, dunque, la decisione di collocare “Maratona K” in questo spazio davanti alla Casa del Libro, che si apre – informa Peluso nel suo “Taranto dall’Isola al borgo – dove stava il Salerno, che secondo la locandina serviva la migliora tazza di caffè.

Una ragazza legge Kafka
“Per Maratona K, avvenimento esemplare, Nicola Mandese si è dato da fare, anche telefonando ad amici giornalisti lontani: “A Taranto tutti leggono questo capolavoro”, forse trasposizione letteraria della vita familiare dello scrittore. E a cose fatte, sotto una pioggia di consensi per gli artefici dell’iniziativa, si lasciava andare: “Mi sono commosso nel vedere la ragazza, il giovanotto, la persona anziana che sbucavano dalla folla per avvicinarsi al microfono”. La gente ha voglia di cultura, quindi ben vengano questi appuntamenti, ispirati dal cuore di “Cinema di Taranto”. Taranto! La stessa parola ha un suono ritmico. Chi ha dovuto voltarle le spalle la rimpiange. Sempre bellissima, seducente, ricca di sole, avvolta nel profumo dei due mari: il Grande e il Piccolo. Quanti poeti l’hanno decantata, questa perla. Michele Lentini nel 1833; Armando Perotti alla fine del XIX secolo; Vincenzo Fago nel 1913…”Or con ratto remeggio a la mia sponda vo’ ritornare ove l’amor fiorìa… Francesco Giuseppe De Nicola nell’80. “Molle Tarentum”. Dolce, indimenticabile Taranto. Se si parte si continua a palpitare per i suoi tramonti. Quando si torna, si vorrebbe rimanerle legati come i mitili alle “zoche”. L’amore per Taranto non si spegne mai. A mantenerlo vivo serve “Maratona K, che merita gli applausi con l’esortazione a continuare.


mercoledì 22 novembre 2017

Incastonata fra Taranto e Martina


 


LA FRANCESCA, GIOIELLO

FRA LE CENTO MASSERIE



Masseria Francesca
Gastronomia qualificata,

ospitalità superlativa,

gite in carrozza,

cavalli murgesi che

ballano la “pizzica”,
 
concertini,

serate danzanti,

parco-giochi, momenti

rock,

ogni tipo di “confort”.



Franco Presicci


Una fisarmonica e un sassofono suonati da due virtuosi, Vito Santoro e Armando De Sales, hanno inondato di musica, l’altra sera, le sale-ristorante dal soffitto a stella della masseria Francesca, a Crispiano. 

Vito Santoro - Armando De Sales
Hanno fatto rivivere gli anni Sessanta e Settanta, con “Legati a un granello di sabbia”, di Nico Fidenco”; “Nel blu dipinto di blu”, di “Mister Volare”: Domenico Modugno; “Le mille bolle blu”, cantata da Mina al Sanremo del ‘61; “Il nostro concerto” di Umberto Bindi, che lo interpretò piangendo, con “Arrivederci”, nel ‘63 all’ Intra’s Derby Club di Milano, presenti Giorgio Gaber, Paolo Stoppa e Rina Morelli; “Quando quando quando”, che, scritta da Alberto Testa, vinse la rassegna sanremese nel ’62 con l’accoppiata Tony Renis, autore della musica, ed Emilio Pericoli, esplodendo poi negli Stati Uniti con la voce di Pat Boome e fiorendo in Vietnam nel 2008. Da tutti i tavoli scrosciavano ovazioni, mentre i camerieri, sincronizzati e veloci come maratoneti, servivano castagne, polenta, funghi, cipolla al forno, un delizioso risotto e uno stinco al Primitivo di Crispiano, accompagnando i piatti con un ottimo Novello (cantina di Lizzano), primo vino dell’anno, tradizionalmente bevuto in occasione della festa di San Martino: ricorrenza in cui, recita un vecchio detto popolare. ogni mosto diventa vino.
Ospiti della serata
E questo seduce il palato per il suo colore vivo, intenso, e per la generosità del gusto.
Una serata memorabile, allestita da Michele Conserva, ottimo anfitrione. Insomma, un binomio felice: gastronomia qualificata e volo di brani che all’epoca fecero sognare milioni di giovani innamorati, mandando in visibilio anche un oceano di anziani, come “Romantica” urlata da Tony Dallara. Ogni tanto Santoro, noto tra l’altro per la sua naturale “vis” comica, distillava battute effervescenti dalla sua botte sempre piena; cambiava le parole di “Love in Portofino”, del “Barattolo” di Edoardo Vianello…; dedicava brani ad amici ritrovati; zigzagava fra gli spazi con il mantice che gli è compagno da una vita, mentre un manipolo di “fans” invocava invano l’ugola della bravissima interprete di operette Federica Ruggieri (a destra della foto in alto).  

Una carezza...condivisa
Sarius si esibisce con una ballerina









Per noi una sorpresa: una visita alle scuderie popolate da una quindicina di cavalli murgesi, tra cui “Sarius”, un asso che nelle serate estive si fa onore ballando senza sbagliare un passo, la “Pizzica”, e regalando ore di svago ai clienti ospitati nelle camere della struttura, ariose e arredate con classe, oltre che ai visitatori, che vanno a godersi la bellezza della Francesca e gli eventi che vi si susseguono.

De Sales - Santoro
“Sarius” è un’attrazione come l’elefantessa Bombay che negli anni ‘60 nello zoo di via Palestro, a Milano, con tutt’altro numero catturava l’attenzione di migliaia di spettatori, soprattutto bambini: dopo gli equilibrismi su una grossa sfera di ferro, scartava i doni che gli venivano dati; e se denaro lo consegnava all’istruttore; se caramelle le teneva per sé; se carta straccia rifilata dai soliti spiritosi la buttava via: fenomeni che nemmeno i circhi equestri più famosi si sarebbero lasciati sfuggire. Sono all’altezza della loro reputazione, questi gioielli delle Murge: fieri, forti, eleganti, fronte larga, occhi dolci e vivaci, imponenti, disponibili alle coccole… Alloggiati come principi in questo complesso dalla linea architettonica semplice, interessante e suggestiva, incastonato nella campagna attorno alla città delle cento masserie, che ha molti meriti, tra cui quello della Sagra del peperoncino piccante che nella passata edizione ha perso uno dei suoi rappresentanti più autorevoli: il professor Massimo Biagi, docente all’università di Pisa ed esperto a livello mondiale della spezie amata anche da personaggi famosi (pare anche da Mao tsè-tung) in ogni sua sfumatura di colore e di piccantezza.
Rientrati sotto una pioggia afona nel ristorante, abbiamo sorpreso Santoro, simpatico, sguardo vivace e penetrante, impegnato in “Besame moucho” con De Sales, che soffiando muoveva ritmicamente le spalle, si contorceva, roteava lo strumento, con i commensali che fungevamo da coro e richiedevano, ottenendolo, il “bis”.
Il maestro Vito Santoro
Santoro è capace di fare spettacolo da solo: musica e teatro. Lo stesso           De Sales, sassofonista di grande bravura, rideva a crepapelle agli “schetch” estemporanei del compagno. Poco prima di mezzanotte, il gran finale. La musica ha alzato i toni; poi tutti hanno indossato i cappotti e si sono incolonnati verso l’uscita. Ma alla testa della fila è stato imposto l’alt dalla pioggia, fattasi incalzante, aggressiva, rumorosa; e toccava il pavimento come piedi di ballerini scatenati sulla pista. Qualche ardito l’ha affrontata correndo verso la superba quercia secolare, chioma a cupola, un’opera d’arte che signoreggia al centro dell’ampio piazzale; e, dopo una breve sosta sotto quell’ombrello vegetale, con un’altra sgambata acquatica, inzuppato, ha raggiunto l’auto, parcheggiata fra macine di pietra disposte a mo’ di ornamento, e un grosso sasso con la sagoma di un cane San Bernardo. Una di quelle pietre di Puglia che hanno forme zoomorfe o umane: monumenti come i tronchi e gli zoccoli degli ulivi saraceni. E’ stato Michele Annese, per anni segretario generale della comunità montana, direttore della Biblioteca “Carlo Natale”, e conoscitore delle masserie, della loro storia, della loro attività antica e moderna; amante delle loro caratteristiche architettoniche, ad offrirci l’occasione di alcune ore gioiose in quest’oasi fra Taranto e Martina, in territorio di Crispiano.

 Masseria Francesca di sera
Un agriturismo “super”, fra corolle di alberi, folklore e tradizione, ogni “confort”, vari angoli rilassanti: dal piano bar a una sala detta del frantoio, al parco-giochi, ai percorsi per passeggiate in carrozza, momenti rock, manifestazioni di arte equestre, galoppate di colossi murgesi allevati nel regno della Francesca. Dove c’è poco da annoiarsi, tra concertini, omaggi a interpreti famosi (uno, tra i più recenti, a Renato Zero), grandi feste, serate danzanti. come quella della notte di Ferragosto, degustazioni di antipasti di derivazione contadina…. Tutto in un ambiente rustico ingentilito da un restauro corretto e intelligente. Un luogo, in cui il silenzio è rotto al massimo dal canto del gallo, dal gorgheggio di un uccellino, dal nitrito d’un cavallo, che vanta origini lontanissime e nobiliari.
Tanti stalloni – ci informa uno che la sa lunga, anche se non quanto Alfonso Basile (tra l’altro preparatissimo melomane) e Luca Pastore-Chiancone, entrambi di Martina - furono importati all’incirca nel 1500 da Matteo Andrea Acquaviva, conte di Conversano. Soddisfatto, e noi con lui, Michele Annese, di solito riservato e misurato nelle parole. Continuava a versare gocce di Primitivo in calici invitanti, esaltando le doti del nettare, una delizia, dopo il breve brindisi intessuto da Michele Conserva e gli “exploit” del “duo” artistico, ben amalgamato e vincente. Tra saluti e baci, una giovane signora, carrozzina al seguito, ha sussurrato a un “apulo-lombardo”: “Scusi, lei è…?”.
Maestosa quercia nel piazzale della Masseria
La risposta è stata un lungo abbraccio: zio, anziano, ma artapecorito, e nipote che, abitando in città diverse, non si vedevano da vent’anni, si sono ricongiunti (quando si dice il caso). “Io e il mio ‘ragazzo’ veniamo spesso alla Francesca. Ci piacciono la cucina, il servizio e l’accoglienza’”. Nel ‘700 questa masseria era una dimora contadina, che avrebbe potuto seguire il destino di tante cascine lombarde, abbandonate o demolite, come la Guardia di Sopra e la Cascina della Seta (e non è in ottime condizioni, nonostante gli sforzi dei fratelli Bianchi, neppure la Linterno, che per 9 anni ospitò Francesco Petrarca desideroso di solitudine). E invece eccola, la Francesca, convenientemente rimessa a nuovo, in parte convertita a ristorante, albergo, b&b, allevamento di cavalli murgesi... Tutta da ammirare; una signora che ha tante grazie da mostrare, da poter ammaliare, con il paesaggio, ricco e vario, che la circonda, l’ispirazione di un pittore dal nome consacrato. Proprietaria la famiglia Ruggieri di Martina Franca, la sezione agricola è curata dalla famiglia Caroli e la ristorazione da Michele Conserva, 54 anni, che si avvale di valenti collaboratori. I profumi e i sapori della Francesca ci hanno seguito nel rientro, come per invitarci a tornare. Promessa fatta, mentre, uscendo dall’auto, a Taranto, guadando la strada sommersa dall’acqua, il pensiero è andato al diluvio universale.










mercoledì 15 novembre 2017

“Africando”, taccuino di viaggi africani


Il treno del deserto
 







IL SAHARA NICOLA LO RE

SE LO PORTA NEL CUORE
 

        







Un libro bellissimo, fatto di parole
 
             e di immagini.







 Nicola Lo Re durante una sosta
Ti avvince, ti rapisce,

ti dà la sensazione di

accompagnare il narratore a

bordo di un camper in terre

magiche, seducenti e lontane.







Franco Presicci
 


Non ci sono cure per il mal d’Africa. Quando quel sentimento di nostalgia ti prende è impresa inutile tentare di superarlo. Se chiedi a chi se lo porta dentro che cosa sia questo male, non lo sa; ma conosce il disagio che prova al rientro da un viaggio in quella terra, avvertendo subito dopo il bisogno si rimettersi in sella alla moto, alla guida dell’auto o del camper. Il fascino dell’Africa ti cattura. L’africa è una sirena. Ammalia, fa sognare. Qualcuno ha detto che quando sei in Africa sei a casa. Jung la raggiunse nel 1925 con altri tre, per studiare, anche lì, le culture primitive, e rimase incantato dal paesaggio: ebbe la sensazione di averlo già vissuto. Karem Blixen l’amò profondamente. E milioni di persone nel mondo se la portano nel cuore. Nicola Lo Re l’ha attraversata in lungo e in largo.
Libia.Carosello sulle dune dell'Acacus
Vi ha macinato chilometri e chilometri polverosi, accidentati, asfaltati, in salita e in discesa, sulle gobbe del deserto, tra i solchi aperti nella sabbia, i tuareg, nomadi sparsi nel Sahara, dal Mali al Niger, in Algeria…; tra i pescatori a St. Louis in Senegal, o al mercato: una tavolozza sfavillante; o a passi lenti nella Cittadella di Gadames… “Avevo 15 anni quando un modesto film di avventura, Gunga Din (diretto nel ’39 da George Steven, in cui un portatore d’acqua in un reggimento britannico in India aspira alla divisa di soldato…n.d.a.), infiammò la mia fantasia e mi spinse a conoscere la parte dell’Africa che mi era più congeniale, sempre in compagnia dei miei libri preferiti, scritti dai grandi viaggiatori antichi e moderni”. Così ha riferito nel suo bellissimo libro, “Africando - taccuino di viaggi africani”, pubblicato da Nuova editrice Apulia. Un libro, a tratti con accenti di poesia, che ti coinvolge e fai fatica a interromperne la lettura, magari perché un imprevisto ti vuole altrove. “Partendo con altri ero abbastanza cosciente di mettere nello zaino anche rischi o incertezze ma, in fondo, proprio questo mi attirava, e rispondevo alle mie perplessità pensando, che se fosse andato tutto liscio, non avrei avuto molto da ricordare”.
Lo Re in una tenda
Nell’ultimo decennio le sue avventure Nicola Lo Re le ha affrontate sempre da solo, anche per riflettere di più e meglio, per meglio assaporare la meraviglia dei luoghi visitati, alcuni in bilico tra mito e realtà. Stile elegante, efficace, espressivo, il suo Scorrendo queste 236 pagine (prezzo 18 euro) il lettore si ristora, vagheggia l’Africa, le sue attrattive, immagina il villaggio popolato di gente semplice e antica; le carovane; le caprette funambole sugli alberi rinsecchiti di Argan; le rocce nere dell’Air… Il Sahara, seducente, sconfinato, con il paesaggio ammaliante e le oasi pattugliate dalle palme … Per Lo Re “il mal d’Africa e la magica parola Sahara sono il silenzio che assorda, il tremolio di stelle infinite, l‘immensità del deserto e i suoi mutevoli colori…”. Il Sahara, “immensa macchia gialla sul continente africano”, lo affascina, lo commuove, lo esalta, lo strega.
Donne lavano i bimbi nel fiume
Sono palpitanti, i suoi ricordi, e li racconta nei dettagli, con fervore; a volte con un’ironia sottile, garbata. Rispolvera le vicende dei Paesi che ha conosciuto, descrive gli uomini, le abitudini, le feste, i riti. Eccolo a Timbuktu, che, dichiarata patrimonio dell’umanità, sorge a pochi chilometri a nord del fiume Niger, mèta dei grandi viaggiatori dell’800, “quando aveva già perduto i fasti della città piena non solo di oro e commerci”, per cui era ritenuta una specie di Eldorado, ma anche importantissimo centro culturale…, è diventata almeno da quattro secoli una città morta e isolata”, con le sue glorie sepolte in gran parte sotto le dune. Ogni luogo è una miniera, ha scritto Tiziano Terzani, un serbatoio di notizie, di curiosità, di storia. Il tramonto di Timbuktu fu determinato dall’emergente “popolo Songhai, che fu a sua volta distrutto da armate mercenarie marocchine e il favoloso Ghana antico scomparve”.
Trasporto di cammelli
A tenere in piedi la memoria del suo illustre passato, ad alimentarla, “contribuì la lunga lista degli esploratori europei, che cercarono di raggiungere questa ‘regina delle sabbie’”. Proseguendo nella lettura, si ha l’impressione di essere compagni di viaggio del narratore, al quale nelle numerose traversate non sono mancati i problemi, gli inconvenienti, gli imprevisti, le persone sgradite. Come il perugino Paolo, presentatogli da due simpatici signori, uno di nome Gennaro, napoletano bizzarro; l’altro Ciro, detto “calzini bianchi”, apparsi sul traghetto che faceva rotta verso Tunisi. A Nicola venne chiesto di dare un passaggio a questo Paolo, che all’imbarco era vestito pittorescamente e reggeva un borsone voluminoso e una valigia gonfia come le donne africane di Salvatore Fiume, in testa un cappello alla John Wayne e sprovvisto della tenda per la notte. Alla titubanza di Nicola rispose che avrebbe potuto trovare ospitalità nel letto matrimoniale che arredava il suo fuoristrada, visto che veniva occupato solo per metà. E siccome a spremersi le meningi la soluzione spesso si trova, al “cowboy” fu allestito un giaciglio sul portapacchi del fuoristrada di Gennaro.
Il camper in viaggio
Era l’alba del 1980, e Nicola Lo Re guidava una Land Rover modello 110 da lui stesso camperizzata e attrezzata convenientemente: frigo, cucina, letto matrimoniale, appunto, e notevoli riserve d’acqua e di gasolio.
I viaggi, oltre che evasione, sono fonti di cultura. Se fatti con il piacere della scoperta ti danno ricchezza interiore e a volte ti rendono diverso. Anche per questo Nicola preferiva incamminarsi da solo, libero, autonomo, verso nuovi mondi, in cui trovare altre fisionomie umane e panorami incantati, che annotava giorno per giorno come il comandante di un bastimento, perché, anche se ha memoria, un volto, un dialogo, una situazione possono sempre eclissarsi. Così è nato questo libro, dove ogni parola è una gemma, dipinge appieno un’emozione. Lo Re racconta i suoi percorsi, i suoi innamoramenti intellettuali, i palpiti del suo cuore, le sue esperienze quasi con gioia, e gioia inculca in chi lo segue in questo resoconto. “Andare per Africa ha rappresentato per me la scoperta della povertà arricchita dalle sue risorse, ma quasi sempre una sorta di purificazione mentale, uno specchiarmi nelle origini più semplici e nel ritrovamento di interiorità perdute…”. Non ha dunque vissuto l’Africa con la superficialità di chi va per vedere com’è, mandando una cartolina agli amici; “non come un semplice esotismo per occidentali alla ricerca del sole; e se questo mi avesse colorato solo la pelle, senza bruciami dentro, sarei tornato a casa con pochi valori aggiunti”.
Nicola Lo Re
La sua Africa – confida – è lontana dai percorsi indicati dalle agenzie turistiche; non è Marrakech, o il cammello che ospita fra le due gobbe gli stranieri, guidato dal padrone in barracano. Non li ha ignorati, non li ha considerati con sufficienza: solo uno sguardo e via, come alle rondini che ha visto spesso in migrazione sulla costa atlantica, “puntuali compagne dei miei rientri in Europa”. L’ha cercata, l’Africa, l’ha scrutata in ogni angolo, il più misterioso, il più nascosto, il più remoto, spingendosi sempre più a sud, fino ad attraversare “tante volte, da grande, tutto il Sahara, da est a ovest, fino al Sahel, dal Golfo di Guinea al Sudan, al Medio Oriente, sempre rigorosamente con macchine fuoristrada, nelle quali poter dormire…”. Quanta acqua ha portato al suo mulino, Lo Re, scrittore vero, molto ben dotato. Evoca le atmosfere con sapienza; descrive nei particolari le cerimonie rituali, come ”L’Aid el Kebir”, la Grande Festa, importantissima nel mondo musulmano, detta anche ”Festa del sacrificio”, per l’immolazione di milioni di montoni. Entrava per la prima volta in Gambia quando su uno zatterone che scivolava sull’acqua del fiume navigava tra una folla “intensa e chiassosa”: le donne calate in abiti vaporosi, dai colori vistosi, con” foulard” aggomitolati sul capo, soverchiato, in alcune, da una cesta colma di merce da vendere al mercato o con coppie di polli legati a testa in giù; e montoni, tanti, da sgozzare “in memoria del sacrificio fatto da Abramo per ringraziare Dio per avergli risparmiato il figlio”.
                    Libia. Tradar Akakus
Chi conosce il grande Sahara, dice, non può non aver sentito parlare di Vittorio Gioni, anche lui malato d’Africa. Nicola lo incontrò ad Agades, nel Niger, dove una volta giunse con l’intenzione di guadare “l’immenso oceano di sabbia del Ténéré”. Vittorio era un funzionario di banca dalle prospettive brillanti, ma rinunciò alla carriera, arredò una Land Rover e si avviò verso quella che considerava la stupenda solitudine. Aprì una gelateria, creò un’impresa turistica, sposò una bellissima ragazza tuareg… Nicola fu accolto a braccia aperte in casa di Vittorio e ascoltò da lui la storia di Agades, le cui origini risalgono al secondo millennio avanti Cristo, “durante la civiltà del rame”. L’ha conosciuta tutta, l’Africa, Nicola, viaggiatore mai stanco, avido. “Le mie mete le ho scelte sempre ‘a pelle’”, senza mai lasciarsi influenzare dalle sirene dei “tour operator”, “che ti fanno sentire un bagaglio trasportato da altri”. E’ andato dove lo portavano il cuore e le esigenze della sua cultura, con una curiosità infinita. “Il sacrario militare di El Alamein m’impressionò con la seria ed essenziale imponenza in un paesaggio di grande solitudine…”. Quando arrivi all’ultima pagina di “Africando”, dopo aver sospirato l’Africa anche ammirando brandelli di bellezza in decine di foto a colori e in bianco e nero, deponi il libro e ti prometti di riaprirlo presto.
Anche per la qualità del linguaggio, fatto di parole e di immagini, oltre che per il contenuto, che è un pozzo senza fondo di notizie, eventi storici, personaggi avvicinati, mezzi di locomozione, come gli elefanti teutonici a C., “dove la C sta per crisi”: quegli enormi camion a sei ruote motrici, che, “con perfetta organizzazione e tempi teutonici scorrazzano manipoli di turisti in spazi immensi, con tappe da incubo”. Ne ha viste, di cose, Nicola Lo Re, che cominciò a viaggiare a vent’anni con una piccola moto, estasiato alla vista del treno del deserto in Mauritania; “del cielo che in Libia si specchia nel lago di Um-el-Mad; della cascata di Ouzoud in Marocco; del tramonto sulle rocce nere dell’Air nel Niger; delle scene di pesca a St. Louis nel Senegal; del ”dito di pietra”, la montagna che per i Kirdi è una dea … Nicola Lo Re definisce “Africando” frammenti di memoria, “piccoli ricordi che emergono dal mio passato di viaggiatore”. E’ invece un libro piacevolissimo, e anche istruttivo. Si è fermato, adesso, Nicola Lo Re? Ma no. Spera di riprendere un’avventura in compagnia del nipote Armando, al quale ha trasmesso il mal d’Africa.


                                      e-mai di Nicola Lo Re: lorenicola@yahoo.it

mercoledì 8 novembre 2017

Il “charleston”, il “Cha cha cha”, lo “spirù”



Il famoso giornalista Alfredo Pigna balla sulla Michelangelo
SI BALLAVA PER DIMENTICARE

I DISASTRI FATTI DALLA GUERRA
  
I grammofoni lanciavano le

voci di Luciano Tajoli, Oscar

Carboni, Giorgio Consolini,

Claudio Villa.

Il film di Vittorio De Sica, nel

’50, Miracolo a Milano”, e le

balere.


 Franco Presicci
Molti sfregi e lutti provocò a Milano il secondo conflitto mondiale. E molti piansero sulle macerie. Le strade erano percorse da carrette tirate da cavalli, anche loro affamati, e perfino da un dromedario, idea di un estroso trasportatore. I tram viaggiavano stracarichi, con passeggeri sui predellini o addirittura appesi al “trolley”. Il carbone scarseggiava e il freddo faceva battere i denti. Tra i ruderi qualche tonsore rasava il cliente seduto su una panchina recuperata, o su un blocco di cemento, pezzo delle ossa spezzate d’un edificio. Intanto si pensava a ripristinare il volto della città. E intervennero le ruspe, che trasportarono il materiale a San Siro, modellando la Montagnetta, poi Montestella, sulla quale, in ricordo dei morti e dei disastri (ricordiamo la strage di Gorla, 184 vittime, soprattutto bambini sotto la scuola elementare sbriciolata), vennero piantati alberi anche dagli studenti. Il morale era a pezzi.
Tango
Non si riusciva a placare il ricordo delle bombe. “Qui sul Naviglio Grande non ne sono cadute”, mi disse una signora bassina, sottile, i capelli argentei – ma ho ancora nelle orecchie il fracasso che facevano quelle che cadevano altrove”. Ma bisognava scuotersi, arrangiarsi, tornare a vivere, liberarsi dell’angoscia, elaborare i lutti. Molti speravano nella Sisal, che, inventata dal meneghino Massimo Della Pergola, emise la prima schedina il 5 maggio del ’46. Due mesi dopo un impiegato di nome Emilio Biasetti con un 12 vinse oltre 500 mila lire. Che allora erano soldi. Nonostante la miseria, la fame, la mancanza di lavoro, l’incertezza del domani, a poco a poco nella gente tornò la voglia di darsi alla pazza gioia a suon di musica, anche per dimenticare. E la puntina seguiva i solchi magici del 78 giri che giravano sul grammofono a tromba o a cassetta. Furoreggiava il Trio Lescano; fece scandalo il bikini; al cinema arrivò “La vita è meravigliosa” …
Il maestro Giuseppe Martini balla con un'allieva
Soprattutto i giovani ballavano il “boogie-woogie” di origine americana, che subì la concorrenza del “booky tonky”. Giuseppe Martini, insegnante di tango e walzer in una scuola di danza del quartiere, sa tutto, di quegli anni. Almeno per quanto riguarda i “voli” sulla pista. “Andavano molto anche il charleston, il “cha cha cha, lo spirù, che in francese vuol dire scoiattolo – mi disse un giorno del 2008 -. Oggi sembrano ignorati, ma allora turbinavano, tra wiskhy e Coca cola, bibita che dalle nostre parti circolava da una ventina d’anni”. Per Tullio Barbato, giornalista di punta del quotidiano del pomeriggio “La Notte”, poi chiusa, e direttore di Radio Meneghina, pratico come pochi di storia milanese, “la gioia per la pace ritrovata esplose in tutte le zone, di sera e nei giorni festivi. I cortili si trasformavano in piste da ballo ed erano presi d’assalto. Fra i brani di maggiore successo, “Cantando con le lacrime agli occhi”, “Addormentarsi così”, “Fiorin Fiorello” di Vitttorio Mascheroni, che nel ’52 trionferà a Sanremo con “Papaveri e papere”. In via Washington 98 suonava un’orchestrina diretta da Gorni Kramer, poi trasferitosi alla Sirenella di via Rovello. Bruno Pallesi, ricorda Barbato, che è anche scrittore (suoi un libro sul terrorismo e uno sulle case di tolleranza milanesi), cantava in un cortile di via Cola di Rienzo; Wanda Lorenzini in viale Lanino; tanti altri nelle corti delle osterie con gioco delle bocce: all’Isola, a Brera, in piazza Bolivar, e delle cascine di periferia. Walter Annicchiarico, in arte Walter Chiari, mieteva risate in un locale semidiroccato di piazza Cavour. Nelle vie transitavano organetti e tricicli con grammofoni a manovella. Le persone uscivano sui balconi o si assiepavano attorno ai musicanti e, potendo, non lesinavano qualche spicciolo.
Tango alla Ghironda a Martina Franca
E si aprivano sale da ballo. “Di ogni tipo e per ogni classe, per i ricchi e per i poveri”, continuò Martini. E Barbato, in occasione di una interessante conversazione a Radio Meneghina, in via Monte di Pietà, ne citò alcune: “Il Giardino dell’Odeon”; il “Tosca”, affacciato sul Parco Solari; “La Lucciola”, “La Meridiana”, di via Cellini; la “Punta dell’Est” all’Idroscalo, dove si esibirono artisti di rilievo, come Don Marino Barreto jr.; l’”Arenella”, prima ribalta per Wilma De Angelis e Arturo Testa (chi non lo ricorda in “Io sono il vento” negli anni ‘70?). I circoli organizzavano feste con orchestrine e cantanti. Per i nottambuli, i “night”: l’”Astoria” in piazza Santa Maria Beltrade, il “Carminati” in piazza Duomo; la “Taverna Ferrario”, in piazza Cairoli; “El Maroco”, in via Paolo da Cannobbio; il “San Souci”, lo “Shangai”.
Ballo sulla Michelangelo
Tutti in centro; e anche qui chitarre, batterie, bassi e ugole di belle speranze. Dominvano Peter Van Wood, Lelio Luttazzi, Franco Cerri, Bruno Martino… Quando Vittorio De Sica, tra gli orti e le baracche di Lambrate, cominciò a girare “Miracolo a Milano” (nel ’51), con un gruppo di barboni autentici reclutati nella stessa zona, si fece largo il fenomeno delle balere, locali meno estesi, più dimessi e più accessibili a chi non aveva il portafoglio pieno, con la prima consumazione compresa nel biglietto e i dischi al posto dei complessi o complessi più modesti. Una domanda impertinente non sorprese Martini: Il ballo era anche l’occasione per cuccare?. “La maggior parte delle ragazze erano timide; ma dopo qualche sera a volte si poteva anche azzardare l’invito ad un incontro a due.
Una coppia di ballerini
Quelle più spigliate non respingevano il ballo della mattonella. Ma, attenzione, eravamo distanti dagli atteggiamenti di oggi. C’era più pudore, più riservatezza, più rispetto per gli altri”. Si ballava per divertimento, spensieratamente. E ogni tanto emergeva un fuoriclasse, come Bruno Dossena, detto “Boogie”, ballerino di “rock” acrobatico. “Adesso chi viene a scuola vuole imparare bene i passi, e ci riesce, ma non noto più la gioia di un tempo”. Certo non tutti possono mirare a “Ballando con le stelle” o ai livelli di un Alejandro Aquino, che appresa l’arte del tango da tre eccelsi maestri, tra cui Pepito Avellaneda, dette prova di ammirevoli virtuosismi nei migliori locali non soltanto di Buenos Ayres. Aggiunse Martini: “Di scuole a quell’epoca quasi non si parlava. L’associazione nazionale maestri di ballo, con uffici a Modena, di cui faccio parte, è nata nel ’45, ma allora i maestri scarseggiavano e quindi anche gli allievi. Negli anni 60 le richieste aumentarono e i maestri diplomati anche”.
Balli in cortile
Si ballava anche in casa, il sabato e la domenica, con le voci di Claudio Villa, Giorgio Consolini, Oscar Carboni, Luciano Tajoli, che ebbe il suo primo successo nel ’41 con “Villa triste”, facendosi acclamare poi con “Balocchi e profumi”, di E.A. Mario, “Violino tzigano”; nel ’47 “Canta se la vuoi cantar”. Un’altra maestra di danza, Daniela Arnoldi, intervistata nel 2009, raccontò che la passione l’aveva ereditata da uno zio, al quale piaceva ballare e tenere unita la famiglia. La domenica e nelle altre feste comandate riuniva nipoti, sorelle, cugini, spostava i mobili e apriva le danze. Si ballava come ognuno sentiva, mentre adesso si devono seguire passi precisi per ogni danza. Erano già gli anni 70. A Sanremo esplosero Adriano Celentano e la moglie Claudia Mori con “Chi non lavora non mangia”; Gino Paoli cantava “Il cielo in una stanza”; Domenico Modugno “Nel blu dipinto di blu”; Tony Dallara, il re dei nostri urlatori, “Come prima”, brano immancabile nei balli popolari, che si arricchirono con il calypso, il mambo, la samba, il surf, il sirtaki, lanciato dal film “Zorba il greco” con Anthony Quinn. Daniela Arnoldi confidò che le piacevano Mina e Gianni Morandi. Di Tony Renis “Quando quando quando”. I suoi balli prediletti il twist, i balli di gruppo, come il famoso trenino. Nella sua scuola andavano molto il walzer viennese, il walzer lento, la polka, il tango, il fox, la mazurka, il cha cha cha, l’hully-gully, e anche la tarantella. “Il ballo ha più appassionati di una volta, anche perché ci sono più scuole. Molti scelgono la sala da ballo perché troppo pigri per andare in palestra”. Anche la solitudine può spingere al ballo. “Quando va la musica i piedi si muovono da soli”. E li si lasciano andare. Con arte e non.














mercoledì 1 novembre 2017

Grazie alle ricerche del nipote Martino


 
LA STORIA DELL’AVVOCATO LO RE

EMERGE SOLENNE DAGLI ARCHIVI



In una raccolta di giornali, documenti,
libri e altro, le attività politica e forense
e le qualità umane della nota personalità,
che fu molto amata e apprezzata, risalta
nella sua grandezza. Difese un manipolo
di briganti della banda di Pizzichicchio e
li fece assolvere quasi tutti. La sua oratoria
era elegante e convincente. Facevano a
gara per avere il suo patrocinio.








Franco Presicci


Su un tavolo, nella sua bella casa di via Daverio, tra il Palazzo di Giustizia e il vecchio ingresso dell’Umanitaria, a Milano, sono sistemate tante di quelle carte, che non si capisce come faccia a trovare subito il documento con la notizia che al momento t’interessa. Lui la risposta te la può dare subito, perché la sua memoria non fa mai cilecca, ma gli piace mostrarti la fonte.

Martino Lo Re
Martino Lo Re, figlio del principe del flicornino in mi bemolle, Vito, e nipote dell’avvocato e onorevole Nicola, a suo tempo famoso e apprezzato oratore e uomo politico, ha le qualità dell’investigatore attento, scrupoloso, insaziabile. Ha trascorso anni a setacciare archivi e non solo, per catturare tasselli sulla vita del nonno. E se qualche ufficio non gli ha risposto, lui non si è scoraggiato e ha pescato altrove. Se gli chiedi una copia dell’atto che sta illustrando, si alza immediatamente, va in un’altra stanza e avverti il respiro asmatico della stampante. “Questo è il mio impegno da quando sono in pensione”, confida, incalzato dalla curiosità dell’interlocutore. E’ cortese, pacato, disponibile, Martino. Alto, elegante, baffetti bianchi, appassionato di musica, come il resto della famiglia, e ammiratore dei nipoti: uno, Vito (nelle sale cinematografiche si sta proiettando il film ”La ragazza nella nebbia”, di cui ha scritto le musiche) è maestro d’orchestra; l’altro, Stefano, suona il violino alla Scala. Martino ha letto l’articolo su Vito, pubblicato da “Minerva News”, e aggiunge un dettaglio: “Mio padre e Mascagni si frequentarono. Una sera il compositore, al Teatro Ariston di Sanremo, dove era direttore artistico, dopo averlo ascoltato, lo invitò nel palco; e, facendogli i complimenti, gli regalò il portasigarette d’argento personale”. E aggiunge che per capire l’altezza della bravura di Vito bisogna tener presente che all’epoca non erano stati ancora inventati i mezzi tecnici di oggi.
 
Grazia Santoro
Lo dice mentre sventaglia sul tavolo una decina di foto: la prima, quella della bellissima Grazia Santoro, di origini martinesi, seconda moglie dell’onorevole (vissuta a lungo a Crispiano), che gli dette due figli, Vito e Francesca (dalla prima, la nobile Grazia Cacace, che lo aveva lasciato vedovo, non ne erano venuti). Nicola Lo Re nacque a Bari, forse città della madre, il 23 giugno del 1837, anno in cui Carlo Alberto approvò il nuovo codice civile, entrato poi in vigore in tutto il regno di Sardegna dal primo gennaio del 1838. Figlio di un magistrato “liberaleggiante” del regime borbonico, si trasferì a Taranto, dove, nel 1867 si sposò, abitando in un appartamento di 11 stanze in una traversa di via D’Aquino; poi in un altro, culla di Vito, di fronte al ponte girevole, vicino a quello del conte D’Ayala Valva. Aveva già avviato una brillante carriera di avvocato penalista. A 27 anni era un principe del foro. L’avvocato    Lo Re Intraprese la vita politica nel 1869.    A 32 anni era consigliere comunale a Taranto; l’anno dopo, assessore. Nel 1872 entrò nel Consiglio provinciale. Il 14 novembre 1889 venne nominato sindaco, ma rinunciò alla carica, agevolando Luigi Viola. “Fu per molti anni – sempre parole di Martino – ‘leader’ di un partito influente in tutto il collegio elettorale a cui la Bimare apparteneva; e come tale si candidò ripetutamente fin dal 1874 alla Camera dei Deputati. La prima volta fu eletto nel 1886 assieme a Pietro D’Ayala Valva e a Paolo Grassi, ma l’elezione fu annullata. Venne rieletto in due legislature successive, la diciottesima e la diciannovesima. “La sua parte politica era quella ‘progressista’, nell’accezione dell’epoca. A livello nazionale s’imparentò con i sostenitori dei governi Depretis e Giolitti, scelta fatta anche dal fratello Francesco, che per quasi un quindicennio, fino alla morte, sarà deputato nel collegio elettorale di Lecce”. Martino s’interrompe, volge lo sguardo verso il balcone che si affaccia su un parco ben pettinato e riprende: “L’aspra lotta politica per alcuni decenni si svolge all’interno di una classe egemone molto ristretta, spesso legata da un intreccio di legami di parentela, ma con forti contrasti ed accesissima competizione, tanto più che si tratta degli anni in cui Taranto passa dalla condizione di periferica cittadina, ancora chiusa all’interno delle mura medievali, a quella di centro di interesse nazionale, prima con l’avvento dell’arsenale e poi come sede principale della flotta militare”. A dimostrazione del clima politico arroventato, contro l’onorevole Lo Re fu scagliata un’accusa falsa, che lui, patrocinandosi da sè, smontò pezzo per pezzo. Raccolse poi l’autodifesa in una pubblicazione, che spedì a Depretis, presidente del Consiglio.La mietitura fatta da Martino è davvero abbondante: giornali, riviste, libri, documenti.



Ecco “L’Illustrazione italiana” del 26 novembre del 1893: “Campione acclamato del foro meridionale è l’onorevole Nicola    Lo Re. Nel ’64, centodue buone lane di Grottaglie dovevano essere giudicate davanti a un circolo straordinario di Assiste di Taranto, imputate di strage mancata, ribellione, omicidi, furti, grassazioni…”: molti di loro erano esponenti della banda guidata dal famigerato Pizzichiccio, al secolo Cosimo Mazzeo, il brigante di San Marzano, ex soldato borbonico, che, acquartierato nel bosco di Martano, in terra d’Otranto, faceva scorribande nelle zone attorno (acciuffato nel gennaio 1864 venne fucilato nel novembre dello stesso anno). “L’avvocato Nicola Lo Re - ancora il periodico - difese egli solo 94 imputati; e, versando in ventun tornate i fiumi della sua eloquenza, ne fece assolvere 72. D’allora la sua reputazione fu fatta; tutti i briganti volevano essere difesi da Lo Re, che tenne lo scettro avvocatesco pure a Lecce, a Trani”, la cui corte era leggendaria per la sua severità… Quando nell’82 suicidavasi il barone di Santacroce, deputato di Taranto, gli amici del Lo Re ne propugnarono la candidatura in quel collegio, ma fu quello il segnale di un uragano di inimicizie che non lo lasciarono in pace per un lungo periodo…”. Ed ecco alcuni brani di un articolo del "Messaggero Salentino” del 20 ottobre 1892: “Domina l’agitazione per l’Acquedotto Pugliese, un grande progetto presentato dallo Zampari nell’anno precedente, con l’invito ad adunarsi a Roma ai 23 di quel mese (maggio) nella Sala Rossa di Montecitorio… nell’adunanza intervennero tutti i deputati…presenti a Roma… gli On. Lo Re Nicola… e aderirono Lo Re Francesco… Aprì la seduta Gaetano Brunetti… parlarono Giusso,     Lo Re, Pavoncelli, Ruggeri… : … costruzione della Ferrovia San Cataldo… occorreva un sussidio del governo… E per ottenerlo Pellegrino si recò al ministero accompagnato da Lo Re e dallo stesso Brunetti e verso novembre si ebbero larghe promesse…” Nicola       Lo Re era dunque stimatissimo. La gente, non solo di Crispiano e della città di Archita lo venerava. Umberto I° gli fece omaggio di un orologio in oro massiccio con catena “sciupataschino”. Era anche generoso.

Martino Lo Re davanti al busto del nonno
Ritratto dell'avv. Nicola Lo Re





















Tra l’altro aiutò un giovane, Tommaso Antonucci, che gli fece un busto oggi alloggiato in casa di Martino, e un ritratto in olio-pastello. Realizzò anche il busto di Cataldo Gagliardo che si trova all’ingresso della biblioteca di Taranto. Sue opere – ricorda Martino - sono probabilmente da qualche parte a Taranto, a Crispiano... Impegnato nella ricerca di questo artista, il 6 giugno del 2016 Martino ha mandato una lettera al Comune di Taranto, in cui tra l’altro sintetizzava i dati principali da lui acquisiti fino a quel punto: “Nato il 6 febbraio del 1859 da una famiglia di modeste condizioni, studi a Napoli e a Roma grazie a ripetuti sussidi concessi dal Consiglio comunale di Taranto… All’Esposizione Nazionale tenuta a Palermo nel 1891.’92 presentò una scultura e un olio.

Ammnistratori di Taranto

La sua produzione, nella sua quasi cinquantennale attività, fu più ben estesa. L’obiettivo che mi propongo è quello di individuare e fotografare un numero quanto più ampio possibile delle sue opere, ai fini di uno studio critico su questo autore tarantino e anche per una migliore conoscenza della cultura artistica in Taranto nel periodo a cavallo tra l’800 e il ‘900”. Il postino non ha ancora portato speranze. Allora l’investigazione va avanti? “Sì, la consultazione dei verbali del Consiglio e della Giunta comunale di Taranto è ancora in corso e richiederà alcuni mesi prima di essere terminata”. Quanta fatica. Ammirevole. Ha interpellato l’Archivio di Stato; cercato testimonianze, letto libri, compreso “Un secolo di giornali a Taranto” di Giovanni Acquaviva, dove nel capitolo dedicato alla “Voce del Popolo” l’autore ricorda che l’8 maggio del 1886 il settimanale diventò organo dell’associazione “Il Risorgimento costituzionale” e in tale veste parteggiò per Paolo Grassi, Nicola Lo Re e Francesco Nitti”; e che quando nel settembre dell’89 venne a Taranto il re Umberto I° tra i balconi più artisticamente addobbati spiccava quello dei Lo Re.

Accennando ai partiti, Acquaviva, per anni direttore de “Il Corriere del Giorno”, riferisce anche che a Taranto “facevano capo allora ai ‘leader’s’ Nicola Lo Re e Pietro D’Ayala Valva”. Dalla sinistra del tavolo, occhieggiano ”La lotta politica a Martina nella poesia di Raffaele Casavola”, di Michele Pizzigallo, in cui Lo Re è citato; e “Il sistema politico giolittiano in Puglia: Nicola Lo Re”, uscito presso Einaudi. E le arringhe? Migliaia. Aneddoti? Uno in particolare. Martino lo racconta sorridendo. “Mentre mio nonno era impegnato a dimostrare che chiunque nella situazione in cui era avvenuto il delitto avrebbe potuto sparare e che le indagini erano state incomplete, nell’aula si spensero le luci e rimbombò un colpo di pistola. Le guardie perquisirono tutti, meno i giudici e gli avvocati. Mio nonno estrasse la sua arma, ammettendo di essere stato lui a premere il grilletto. Le luci si riaccesero, l’oratore riprese l’arringa e provò la sua tesi”. L’episodio non sembra del tutto inventato.
L’onorevole Lo Re morì a Taranto nel 1906 e fu sepolto nel cimitero di quella città nella tomba ex Cacace (Grazia Santoro giace a Crispiano).
La conversazione, dopo due ore di domande e risposte, è alle ultime battute. Martino, uomo colto, ospitale, gentile, riservato, appaga l’ultima curiosità: “Che cosa ne è stato della lussuosa villa di Crispiano?”. “Sto facendo ricerche”. Il nonno possedeva anche una grande masseria nei pressi di Leporano, in zona Campofreddo… Ma la moglie concluse la sua vita in povertà, aiutata dal figlio Vito. “Hai qualche hobby?”. “Non è un hobby, questo? La ricostruzione della storia dei miei antenati?”. Ma si sa che non si limita a spulciare carte negli uffici. Sta preparando una grammatica del dialetto martinese e frugando nello stesso per individuare le parole di derivazione greca. Scrive per “Umanesimo della Pietra”, la bella e interessantissima rivista diretta da Nico Blasi e legge, studia… E’ nato nella città ei trulli nel ’42, è stato dirigente Eni e Fiat prevalentemente all’estero. Vive a Milano, nella via che porta il nome di Francesco Daverio, di Vergiate, sovrintendente degli archivi storici meneghini e patriota; ma non dimentica le case incappucciate, le viti inginocchiate, le facciate biancolatte, le quinte e i fondali del centro storico, i personaggi, le ringhiere spanciate, il sole e i colori della sua Martina.