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mercoledì 27 dicembre 2017

Il commercialista Giacomo Lezoche


AMBASCIATORE DELLA PUGLIA


NELLA METROPOLI LOMBARDA


Lezoche sul balcone a Trani
La nostra terra era tutto per lui.

Tornava quando poteva nella sua

dimora di Trani, il cui bel

terrazzo si affaccia sul porto.

Avvertì la necessità di accogliere i

pugliesi in un sodalizio anche per

non farli sentire lontani dalla loro

culla. Era persona affabile,

disponibile, generosa, studiosa

dei problemi che riguardano la

nostra terra.




Franco Presicci



Quando conversava con Giacomo Lezoche, commercialista noto e stimato con studio in corso Venezia 8, a Milano, quasi sotto le guglie del Duomo, l’interlocutore si sentiva arricchito.
Mario Azzella e Nino Palumbo
Giacomo parlava della sua Trani, dove aveva una splendida casa, acquistata da una famiglia di pescatori e restaurata con sapienza; dei suoi rapporti con lo scrittore suo concittadino Nino Palumbo, emigrato giovanissimo, nel ’39, a Milano, dove si laureò con sacrifici in economia e commercio, abbandonando nel ‘51 bilanci e questioni tributarie, per trasferirsi a San Michele di Pagana, in Liguria, interessato prevalentemente ai suoi libri: nel ’57 “Impiegato d’imposte”, che vinse il Premio Deledda; nel ’66 “Il Giornale”, pubblicati da Mondadori; nel ‘62 “Le giornate lunghe”…; e ai contatti con eminenti esponenti della letteratura, tra cui Elio Vittorini, con il quale tenne una fitta corrispondenza (fu anche direttore della rivista “Diogene”…). Lezoche rispolverava le vicende dei corregionali in Lombardia; la storia dell’associazione pugliesi, atto di nascita il 1921, seconda sede via Torino 34, telefono 83974; mostrava documenti, lettere, fotografie, opuscoli, giornali, come “Terra di Puglia”, il cui primo numero uscì nel giugno del 1930…
Lezoche e Zecchillo all'arrivo del pesce
Si soffermava anche sul vino delle nostre parti, in particolare quello di Trani, sostenendo che era già largamente affermato negli anni 1880-1900, “come dimostra l’accenno che il noto commediografo Carlo Bertolazzi ne fa esplicitamente nella fortunata opera teatrale in vernacolo ‘El nost Milan’ (1893), quando, per dire che una brutta sbornia si era sciolta ricorreva all’espressione “El Trani l’è passàa“. i trani a Milano erano i locali, che, aperti dai tranesi, sono stati celebrati in un bel libro, “Il trani di via Lambro”, di Vincenzo Pappalettera, e cantati da Giorgio Gaber in “Trani a go go”, dove ”si passa la sera scolando barbera”. Lezoche aveva una memoria inossidabile e provava piacere a riferire i dettagli di fatti, situazioni, figure. Per esempio, Peppino Strippoli, che dagli anni ’50 agli ’80 inaugurò cantine, trattorie, ristoranti (famoso “’Nderr’a la lànze”, in piazza Santo Stefano, vicino all’università Statale) e il supermercato del vino a Saronno, molto frequentato non solo da pugliesi, ma da tanti lombardi, giornalisti, imprenditori, pittori, che lui sapeva attirare con iniziative interessanti, protagonista la Puglia. Una sera organizzò una manifestazione con cinque o sei bellissime ragazze che pigiavano l’uva con i piedi in un’enorme botte, rinverdendo i giorni della vendemmia di una volta. Strippoli era di Cerignola, ma barese d’adozione. Aveva numerosi amici, tra cui il regista cinematografico Gillo Pontecorvo, e mille idee.
Zecchillo e Lezoche al porto di Trani
Nell’agosto del 2003, Giacomo mi invitò a pranzo a Trani, dove incontrai il comune amico Giuseppe Zecchillo (baritono della Scala con 270 opere in repertorio, applaudito nei maggiori teatri del mondo, dal Coven Garden al Metropolitan), che era suo ospite. E tra un pesce pregiato e un bel piatto di spaghetti con le cozze, si poteva ammirare il porto, lo splendore della cattedrale che, dedicata a San Nicola Pellegrino, è un esempio brillante di romanico pugliese. Occasione d’oro per discutere delle attività dei nostri conterranei nella metropoli lombarda: ricordammo la prima mostra svolta a Milano dal 22 settembre al 10 ottobre del ’29, organizzata dall’associazione di allora, con 185 opere tutte ispirate al paese di origine di ciascun partecipante: vedute di Bari vecchia, pinete a San Menaio, la riviera di Rodi Garganico, un vicolo di Conversano, una noria a rustico, il litorale del Castello svevo di Trani voluto da Federico II…
Vernola, Strippoli, Alto
Il catalogo, prezzo 2 lire, era firmato dall’avvocato Alfredo Violante, che, nato a Rutigliano, aveva fondato e diretto a Bari “Il Quotidiano” e “Il Rinnovamento”. Scrisse: “…questi disegni e queste pitture formano una nota che non sarà facilmente dimenticata e richiamerà i pugliesi al dovere di tornare spesso in Puglia in amoroso pellegrinaggio e i non pugliesi a recarsi in questa terra non di soli pampini e ulivi ricca, per constatare che tutta l’Italia è fiorente di bellezze naturali per impagabile dono divino…”. Promisi a Giacomo che gli avrei regalato una delle mie due copie del catalogo; e lui mi fece omaggio di un opuscolo di Arnaldo De Palma su Umberto Fraccacreta: “Un poeta del tavoliere”, di San Severo, “la bianca città ricca di pampini, di mandorli e di ulivi…”. Fu una bella giornata, quella; e quando verso le 17 mi alzai per salutarlo si meravigliò: “Come andate già via? Io credevo di avervi a cena”. “No, Giacomo, occorrono quasi tre ore di viaggio per tornare a Martina. Poi fa buio… Sarà per un’altra volta…”.
Mazza e piastrino, opera di A. Testi esposta nel '29
“D’accordo, allora dopodomani. Peppino sarà mio ospite per altri quindici giorni e vi porto un po’ a giro per Trani e anche a vedere la mostra di Sabino Ventura”, un’artista milanese che al Nord, in una chiesetta sconsacrata vicino al Ticino, lavorava magistralmente il vetro. Il giorno dopo constatai che le foto che avevo scattato per corredare l’articolo sulla visita non erano riuscire bene, e telefonai a Giacomo per chiedergli se potevo tornare a rifarle. “Certo che puoi, ma a una condizione: che tu e tua moglie restiate almeno a pranzo”. Giacomo risiedeva a Milano dal ’57. Ebbe la sua prima casa in piazzale Cadorna 7, a due passi dalla stazione ferroviaria Nord, i cui treni corrono verso i laghi e i mondi dell’alta Lombardia. Ci abitava con un docente universitario. Ben presto avvertì l’opportunità di raccogliere i pugliesi volenterosi in un sodalizio (visto che il primo non c’era più), che tra l’altro li facesse sentire più vicini alla loro culla. Dopo due anni d’incubazione il progetto si concretizzò preceduto da un fitto scambio di lettere con Palumbo, che pur vivendo nei pressi di Rapallo non aveva reciso i legami con Milano.
On/li Aldo Aniasi e Roberto Mazzota con Giacomo Lezoche


Lo stesso scrittore fu nominato presidente; vice Lezoche. Aderirono il giornalista e documentarista della Rai Mario Azzella, uomo affabile e dinamico, tra l’altro fondatore nel ’67 del periodico “Hinterland”; il pittore Filippo Alto; gli avvocati Luigi Palumbo Vargas e Natale Radoia. Sede in corso Venezia 8, in due locali attigui allo studio di Giacomo. Scopo sociale, “contribuire allo sviluppo culturale-artistico della Puglia e all’elevazione morale e sociale dei pugliesi, nonché alla conoscenza e alla diffusione dei prodotti tipici della Puglia attraverso manifestazioni programmate senza fini di lucro”. Il 20 settembre dell’83, scomparso Nino Palumbo, il circolo assunse la denominazione di associazione pugliesi, il cui statuto prevedeva la costituzione di un centro studi, di ricerca, approfondimento e divulgazione dei valori storici, artistici, folcloristici, culturali; dei fattori economici, turistici della Puglia. Altro impegno: agevolare l’inserimento dei pugliesi nella realtà economica-sociale-culturale della Lombardia: mantenere vivi i rapporti tra corregionali e tra questi e le radici. Dopo qualche anno l’associazione, guidata da Lezoche, si trasferì in piazza Duomo 21, ingresso sotto i Portici.

Bruno Marzo
Antonio Velluto
A Lezoche, chiamato a dirigere il Cenacolo professionale Solferino, successe Bruno Marzo, un gentiluomo leccese, collezionista di francobolli e di giornali dell’800 salentino. Al Cenacolo, che accoglieva rappresentanti di tutte le regioni, si dibattevano anche temi riguardanti la valorizzazione della Puglia a Milano. “Per me la Puglia – diceva Giacomo - è tutto. Nel mio lavoro quotidiano ci sono attività che pur nascendo a Milano prendono per mia volontà la via della Puglia e viceversa. Per esempio, nei settori della pesca e dell’agricoltura, della produzione industriale in genere”. E proseguiva: “Tornerei volentieri a Trani, ma motivi familiari (la moglie, la deliziosa signora Angela; la figlia Gabriella, milanese e commercialista, la nipote Margherita, ‘il mio fiorellino’) mi trattengono qui”, dove tra l’altro aveva tantissimi amici, dal giornalista e dirigente della Rai e assessore all’Edilizia popolare Antonio Velluto, di Troia, all’onorevole Roberto Mazzotta, all’assessore del Comune di Milano, Gianfranco Crespi… Ci incontrammo più volte a Milano, in corso Venezia, tra Palazzo Serbelloni, che ospitava il Circolo della Stampa, e piazza San Babila, che respira l’aria del Duomo. L’ultima volta era un sabato e nel suo studio arrivavano, attenuati, le voci e i rumori della città. “Ti aspettavo per farti un regalo”, e mi consegnò il volume “Il Cenacolo professionale ‘Solferino’”, pubblicato nel 1988 dalla Grafischena di Fasano. Il primo capitolo riguardava l’”Emigrazione pugliese a Milano e le prime esperienze associative”, come quella di Torino, sorta nel ’21, ad iniziativa dell’avvocato Ferdinando Rango D’Aragona e intitolata a Giuseppe Massari, letterato e uomo politico tarantino amico di Gioberti e di Cavour. Giacomo Lezoche è scomparso nel 2006. La notizia mi venne data da Peppino Zecchillo per telefono. Io ero a Martina Franca e ne fui sconvolto. Ancora oggi, quando penso a Giacomo Lezoche, ripercorro tutto quello che ha fatto per i pugliesi a Milano. Era generoso: chissà quanta gente gli dovrebbe dire grazie. Quando una persona si rivolgeva a lui per chiedergli aiuto lo trovava disponibile. Uomo senza retorica e senza esibizionismi.





mercoledì 20 dicembre 2017

Un ricordo del pittore Filippo Alto



A Locorotondo
DIPINGEVA LA SUA PUGLIA

CON UN AMORE PROFONDO


Tutti i critici più importanti hanno
parlato di lui e della sua arte, da
Raffaele De Grada a Renzo Biasion
a Roberto Sanesi, a Maurizio Calvesi
a Mario De Micheli. Espose anche a
Los Angeles e a Bruxelles. Nelle serate
pugliesi era salutato come un principe.
Uomo serio, ma anche spiritoso, era
tranquillo e pacato. E’ scomparso nel
settembre del ‘92, a Nottwill, Svizzera.





Franco Presicci


Filippo Alto
Dimora estiva a Figazzano
“C’è un flusso costante di poesia nei quadri di Filippo Alto, al punto da stabilire in certi momenti una sorta di confronto, di scommessa e di gara. Direi che l’artista vive soprattutto di questo che è poi e prima di tutto l’ansia della creazione e della restituzione”: sono parole che Carlo Bo scrisse nell’introduzione di un catalogo del 1989. E si chiedeva: “Ma da dove gli nasce questo bisogno di evasione? Nasce dalla vita stessa, dalla costrizione delle regole in cui si chiude l’esistenza…”. Non per nulla – aggiungeva – le sue memorie hanno sempre un punto di partenza comune: la porta, la finestra, il poggiolo”. A spingerlo era la grande passione per la sua terra, per cui percorreva spesso la via che da Milano lo riportava nella sua Bari, ma anche a Locorotondo, Martina Franca, Cisternino…, per dipingere la campagna con le sue modulazioni, i suoi colori e odori e le architetture delle città e dei paesi. Il suo studio in tutto questo paradiso era all’ultimo piano della sua dimora estiva, a Figazzano, un palazzetto dal quale dominava una scacchiera di viti genuflesse e di case con il tetto a forma di cappuccio: i trulli. Lì costruiva sulla tela le visioni che più di altre lo colpivano… Sempre con quella libertà che si portava dentro sin dai primi approcci con la pittura, senza enfasi, senza retorica. “Seguo la pittura di Filippo Alto da una decina d’anni e apprezzo la lunga fedeltà e insieme la freschezza con cui elabora i temi del paesaggio pugliese, quell’asperità e quella dolcezza, la carnosità della vegetazione, l’abbacinio della luce, certo colore dell’aria che egli rende con una tavolozza calda e amarognola, di sontuosità autunnale…”.
 
                   Filippo Alto, Presicci, il sindaco Tognoli, il gallerista Nencini; dietro il giornalista Del Mare e il ministro Vernola



























Don Oronzo, il contadino narratore
La mia amicizia con Filippo fiorì nel ’74, durante una affollata manifestazione pugliese al Cida (Centro Informazioni d’Arte di Nencini, titolare anche della Galleria Boccioni), a Brera, dove erano presenti fra gli altri Domenico Porzio, Vincenzo Buonassisi e Guido Le Noci, che aveva il suo tempio, l’“Apollinaire”, proprio di fronte. C’era anche Chechele, al secolo Michele Jacubino, “deus” del ristorante “La Porta Rossa” in via Vittor Pisani, che alla fine fece, inaspettatamente, arrivare chili di fumanti orecchiette con il sugo e altre prelibatezze pugliesi. Chechele, che al suo paese, Apricena, aveva fatto il fornaio, a Milano era famoso almeno quanto Gianni Rivera; e attirava la gente con una cordialità spontanea, cerimoniosa e con un sorriso arioso. Si avvicinò a noi e borbottò: “Non venite mai nel mio locale; potreste darmi il piacere di farmi una visita, una di queste sere”. Lo accontentammo, e a un tavolo della “Porta Rossa”, dopo un paio di mesi prese forma l’idea del Premio Milano di Giornalismo, la cui prima edizione venne assegnata a Giovanni Valentini, anche lui barese, direttore, a 29 anni, de “L’Europeo”. In giuria avevamo nomi di prestigio, tra cui Raffaele De Grada, critico d’arte e docente a Brera; il pittore Giuseppe Migneco; il giornalista del “Corriere” e poeta Alberico Sala; Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno” e scrittore, già corrispondente da
Filippo Alto, Sebastiano Grasso e l'editore Fenu
Parigi… Premio ambìto, che nelle discussioni per la scelta del candidato aveva anche momenti roventi, spenti spesso dagli interventi di Filippo, che per il suo carattere morbido e convincente era capace di trovare la parola giusta per placare le impennate, per esempio, di Paolo Mosca, allora direttore di “Play Boy”, e le ostinazioni di Sebastiano Grasso, ottimo critico ‘d’arte del quotidiano di via Solferino e persona leale. Di amici importanti, anche a Milano, Filippo, o Pippo per chi lo conosceva bene, o Beppe, ne aveva tanti: giornalisti, imprenditori, uomini di spettacolo, come Mario Marenco, foggiano, architetto, designer, con una naturale “vis comica”, dimostrata nel suo debutto in Rai con “Alto Gradimento”, e in trasmissioni successive in televisione, da “L’altra domenica” a “Quelli della notte” e in tutte le altre di Renzo Arbore, interpretando personaggi spassosissimi (“Ironia tagliente e senza preavviso”, definì la sua lo stesso Arbore)….
Quando Filippo, con Ada e i suoi due ragazzi, Giorgio e Diego, abitava in via Calamatta, 17, una casa di proprietà del commendator Miani, titolare di parecchi negozi di lusso a Milano e del bar Zucca all’ingresso da piazza Duomo, sulla sinistra, della Galleria Vittorio Emanuele, aveva lo studio nel seminterrato, che si affacciava su un giardino. Lavorava alacremente, nelle ore che gli lasciava libere l’impegno di preside dell’Avio School International, che dopo vent’anni abbandonò per dedicarsi solo alla pittura. In quell’”atelier” preparò le mostre a Bruxelles, Titograd, Toronto, Spalato, Sarajevo, la partecipazione alla mostra di Los Angeles “Immagini Puglia” …. Tanti sono stati i critici che si sono occupati di lui: Maurizio Calvesi, Mario De Micheli, Pietro Marino, Raffaele Nigro, Carlo Munari, Roberto Sanesi… Stimatissimo anche per le sue doti organizzative, fece parte del consiglio della Triennale di Milano e fu consigliere del ministro per i Beni Culturali, Vernola.

Alto,la figlia di Chechele,Nenella,Giacovazzo,Chechele,Presicci
Quando il 12 novembre ’83 Chechele chiamò a raccolta nel suo locale i pugliesi di Milano in occasione della trasmissione televisiva “Nord chiama Sud”, che ogni mercoledì, condotta in studio da Elio Sparano e negli esterni da Giorgio Romano, stabiliva un incontro tra le regioni settentrionali e meridionali, Filippo, che all’associazione pugliesi, sede in piazza Duomo, era responsabile delle attività culturali, venne accolto come un principe, salutato festosamente anche da Giacomo Lezoche, commercialista tranese con studio in corso Venezia 8 e storico dei pugliesi a Milano; dai giornalisti Salvatore Giannella, inviato de “L’Europeo”, e Giacomo de Antonellis, della Rai. Nelle iniziative riguardanti la Puglia, quando poteva, non mancava. Ma preferiva non prendere mai la parola. All’Arpugliesi, che aveva come presidente Bruno Marzo, organizzò tra l’altro la presentazione di un bellissimo libro, “Belmonte”, del tarantino Franco Zoppo e affidò il microfono ad Arnaldo Giuliani, capocronista del “Corriere”. Allestì una mostra di giornali dell’800 leccese e dette la parola a Guido Gerosa, grande giornalista e scrittore.
Lavorava nell’ombra, discretamente. Il gigante buono era riservato, schivo alla pubblicità, lontano dai provincialismi. Non si atteggiava a maestro; eppure ha realizzato opere meravigliose, anche di grandi dimensioni; oltre a libri e opere di grafica. Fra i più rilevanti: “Tre alberi di Puglia” (’75), testo di Giuseppe Giacovazzo; “Un pittore e la sua terra (’75), di Antonio Rossano; “Paese vivrai” (’78), di Giacovazzo; “Dove migrava il vento” (’80), di Sebastiano Grasso e Raffaele De Grada; “Radici nella pietra” (’83) di Ugo Ronfani; “S’innervano i rosoni” (’87), di Egidio Pani… In quelle opere lampi di Puglia (campanili e viti, tralci d’ulivo, facciate barocche, balconi spanciati, fregi, rosoni, arcate…) si susseguivano come metafore, emblemi, di una terra splendida: un balenio di immagini intrisi di poesia. “Senti che nella pittura di Alto – scriveva De Grada nell’aprile dell’81 - c’è una costruzione di ordine metafisico che la sottrae al naturalismo post-impressionistico, ma che tuttavia tale ordine non è del tipo intellettuale del post-novecentismo, che ora tra l’altro ritorna di moda”. Filippo non cominciò maneggiando pennelli e tavolozza; ma la matita. Alla scuola media imparò ad usare la china, si perfezionò al liceo scientifico, riproducendo la cattedrale di Chartres, il pulpito marmoreo del battistero di Pisa, monumenti, fonti battesimali. Quando all’età di 17 anni qualcuno gli regalò una cassetta di colori, si mise a copiare le cartoline e poi se ne andava alla periferia di Bari per ritrarre ciò che il suo sguardo catturava. Dalla sua casa di via Sonnino riprendeva i tetti, i palazzi, le vie; e tra un disegno e l‘altro studiava ingegneria all’università.
Il giornalista Mario Azzella, lo scrittore Nino Palumbo, Balssarre, sindaco di Trani, Giacomo Lezoche
A Milano stavamo spesso insieme, anche a cena in casa dell’uno o dell’altro. Della compagnia facevano parte i questori Enzo Carracciolo, siciliano, e Vito Plantone, pugliese di Noci; l’ingegnere Martino Colafemmina, di Acquaviva delle Fonti; l’inviato internazionale del “Corriere” Costantino Muscau, sardo; Francesco Colucci, poi nominato prefetto, molisano; Achille Serra, romano, che in seguito da questore di Milano fu promosso prefetto di Palermo, venendo poi eletto parlamentare… Ci vedevamo ogni anno nella sua casa di villeggiatura di Figazzano, tra Locorotondo, Cisternino, Martina Franca, dove inventava serate indimenticabili dedicate al medico pianista o al contadino, don Oronzo, che raccontava simpaticamente la vita nelle campagne di una volta, o improvvisava una mostra. E ogni volta tra il pubblico c’erano intellettuali, cronisti, direttori di giornali che arrivavano anche da Milano, come una volta lo stesso De Grada, con il quale intrecciai un tango al suono di un violino. A Figazzano ho incontrato il ministro Vernola; Giuseppe Franco Bandiera, direttore del circolo Italsider, lucano ricco di idee, di cultura e di voglia di fare… Filippo, che aveva un fisico da giocatore di basket, era uomo di spirito e un po’ burlone; sereno e rispettoso, schietto, leale. Non amava parlare di sé e della sua pittura. A Caracciolo che gli chiedeva di illustrargli un suo quadro appeso nel mio soggiorno rispose: “Io dipingo, il giudizio agli altri”. Ebbe tantissimi premi, e non se ne gloriava. Il critico d’arte Renzo Biasion lo segnalò al Catalogo Bolaffi con questa motivazione: “Pittore fine, sensibile, autonomo, che sa essere moderno senza voltar le spalle alla tradizione”. Filippo Alto si spense nel settembre del ’92, a 59 anni, nella clinica svizzera di Nottwill, nel cantone di Lucerna, lasciando un vuoto enorme.

















mercoledì 13 dicembre 2017

Simile a un cappello a cilindro


 

SUA MAESTA’ IL PANETTONE
 
HA ORIGINI LEGGENDARIE

 
Ingresso della Galleria in piazza Duomo


                                          
Foto tratta dal libricino di Franco Fava


                                       
                                          Nacque dall’amore di Ughetto,

                                          falconiere di Ludovico Sforza
 
                                          per la figlia di un fornaio? O da

                                          Toni, che sostituì il dolce fatto

                                          da lui con quello del cuoco di

                                          di corte, bruciato per una svista?





Franco Presicci


Natale avanza a passo lento; e i panettoni già occupano ampi spazi nei supermercati, al Nord come al Sud; o viaggiano in treno, in aereo o a bordo di autocarri verso altri Paesi. E c’è chi, per il timore di rimanere senza, lo ha già imbucato nel carrello della spesa.
Galleria Vittorio Emanuele
Si può celebrare la nascita del Bambino senza che sulla tavola troneggi sua altezza? Moltissimi rispondono di no, e fanno domande sulle sue origini. Franco Fava, che su Milano sapeva davvero tante cose e tante ne ha scritte, sul dolce diventato un mito in un libricino edito nel 1985 dalla Libreria Milanese parte dalle leggende che avvolgono la nascita della delizia. Giacometto degli Atellani, capitano di ventura molto amico di Ludovico il Moro, che, per la fedeltà e lo zelo dimostrati nei suoi confronti, gli donò una casa in corso Magenta, nei pressi della chiesa di Santa Maria delle Grazie, e il titolo di scudiero, aveva un rampollo: Ughetto, falconiere dell’energico signore di Milano che reggeva le redini delle vicende d’Italia. Ughetto si era innamorato della bella Adalgisa, figlia di un “prestinee” con bottega di fianco al suo palazzo. La famiglia di Ughetto, data la differenza sociale, non vedeva di buon occhio questo amore, e lo ostacolava con ogni mezzo. Non potevano, secondo loro, finire imparentati con un semplice fornaio, per di più prossimo al fallimento a causa della concorrenza di un negozio aperto di fronte. Allora Ughetto (nome che in meneghino ha l’uva passa: “ughett”), si propose al fornaio come garzone, visto che il lavorante si era ammalato. E così, volendo contribuire a migliorare il bilancio dell’artigiano, si scervellava; finchè non gli balenò un’idea: all’impasto del pane lievitato più volte aggiunse uova, burro, uvetta, canditi e zucchero, ingredienti che pagò con i soldi ricavati dalla vendita di due volatili sottratti a Ludovico.
Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele
L’iniziativa risultò geniale, ed ebbe subito successo, perchè i frati domenicani, che pregavano e predicavano nella zona, assaporato il prodotto per primi, ne dissero tanto bene, che la notizia della novità di Ughetto si diffuse anche a corte e i conti del “prestinee” furono salvi. Stando ad un altro racconto, l’artefice del panettone, nello stesso lasso di tempo, fu un certo Toni, lavapiatti nelle cucine ducali furbo, intraprendente e deciso. Un giorno sgraffignò un pezzo di pasta delle torte che il cuoco stava preparando per Natale, ne fece un grosso pane, e lo costellò di uvetta e canditi. Lo infornò e dopo aver spostato la chiudenda, attese che si raffreddasse e gli dette il primo morso. Ma accadde un imprevisto: le torte del cuoco, avendo superato per distrazione i tempi di cottura regolari, si bruciarono, mandando nella disperazione l’autore, che non sapeva a che santo rivolgersi. Allora Toni lo esortò a servire ai nobili commensali, che già manifestavano la propria impazienza, il dolce fatto da lui con i ritagli di quello andato in malora. Il cuciniere si lasciò convincere e fu travolto dalle acclamazioni. Era nato il “pan del Toni”. O panettone. Una terza versione ha come “dea ex machina” una suora, Ughetta anche lei, il cui convento era tanto povero che spesso doveva intervenire la Provvidenza nelle vesti di qualche benefattrice. Il Natale si prospettava più magro del solito, e suor Ughetta, addetta alla cucina, sconsolata, esplorò la dispensa, che trovò vuota, e vuoti anche gli stipi. Insomma non aveva il necessario per architettare un dolce, sia pur misero, per il pranzo di mezzanotte con le consorelle. Ma le si accese l’ispirazione: calò nell’impasto un paio di uova, zucchero e burro, uva sultanina e qualche candito, gli impresse la sagoma del pane, tracciò una croce sulla superficie superiore e lo mise nella camera di cottura. Quando lo tirò fuori, il dolce era diventato più gonfio e più alto e aveva la forma della cupola di un cappello a cilindro. Il risultato piacque e il convento trovò la sua risorsa, perché da allora fu assediato dai clienti. Leggende a parte, il panettone nasce, secondo Daniela Garavini, “come versione più ricca e dolce del pane tradizionale, da consumarsi ritualmente durante le feste di Natale. Suoi antenati possono considerarsi molti pandolci dell’Italia Settentrionale, pani lievitati nel cui impasto compaiono uova e zucchero, oppure uvette e canditi”. 
Galleria Vittorio Emanuele
Lo storico Guido Lopez, dopo aver definito il panettone vanto di Milano e fino agli anni Settanta milanese in tutto per tutto, afferma che le industrie meneghine, oltre alle pasticcerie e alle panetterie di una certa classe, da San Satiro a Porta Romana producevano circa 100 mila quintali di panettoni, che prendevano le strade più diverse: il panettone, più famoso degli Sforza, non poteva non signoreggiare nei cenoni natalizi. A contribuire alla sua fama mondiale fu Angelo Motta, di Gessate, 1890, che trasferitosi dal suo paese a Milano all’alba del XX secolo, nel ’29, nella galleria che lega via Unione a via Mazzini (allora intitolata a Carlo Alberto) inaugurò il suo primo forno per la produzione del panettone e in seguito una grande impresa reclamizzata da centinaia di migliaia di manifesti e altrettante cartoline natalizie (in una compare la maschera ambrosiana Meneghino che porta su un vassoio un panettone non accompagnato da Cecca). Sino alla fine degli anni Sessanta Motta sostenne la concorrenza di Gioacchino Alemagna; poi si fusero e poi si riunirono in un’altra ditta.
Il Biffi in Galleria
“Due sono state le ‘offellerie’ storiche a contendersi il primato di averlo inventato già nell’Ottocento”, scrive Caro Castellaneta: la pasticceria di Paolo Biffi e quella del Cova, allora su un angolo di via Manzoni, a pochi passi dal Teatro alla Scala, e oggi in via Montenapoleone, il salotto della città. Aperta nel 1817 come Caffè del Giardino, nelle sue sale eleganti andavano a sedersi letterati, artisti, giornalisti…: Giovanni Verga, Sabatino Lopez, rappresentanti della Scapigliatura, Arrigo Boito, Giuseppe Verdi, Giuseppe Giacosa… quelli del Circolo di nobili, patrioti del 1848; mentre il Rotary Club, sorto a Milano nel 1923, scelse il prestigioso locale come sede dei suoi primi incontri. La pasticceria di Paolo Biffi comparve il 15 settembre del 1867 nell’ottagono sotto l’affresco dell’Africa del Pagliano qualche giorno prima dell’arrivo di Vittorio Emanuele II in visita ufficiale alla Galleria a lui intitolata, appena realizzata dall’architetto bolognese Giuseppe Mengoni. Aveva diverse vetrine e un primo piano. Fu il primo locale a dotarsi di luce elettrica nel 1882. Lo frequentarono Arturo Toscanini, Strawinsky, Campigli, Piovene, Mondadori, Luigi Capuana, Emilio De Marchi, il maestro Giordano, la Callas e la Tebaldi, che vi smaltivano gli scampoli della loro rivalità, magari gustando il nodino alla crema di funghi porcini, mentre volavano le note del valzer di Strauss. Era, ed è, così adorato, il panettone, che diversi poeti e prosatori in vernacolo ambrosiano lo hanno celebrato.
Il Campari
Il brano “Per … le buone feste” venne pubblicato su una cartolina di fianco a un panettone disegnato da Corrado Colombo, che scherzava su un decreto che durante la prima guerra mondiale imponeva, a causa delle ristrettezze dei tempi, il consumo di generi non essenziali, compreso il panettone. Più o meno diceva che non potendo inviare ai patiti del dolce quello vero, lo si sostituiva con uno di carta, ”che di quello vero ha tutto, compresi canditi e uvetta. Lo si può anche tagliare a fette. E se non è buono come l’altro è almeno più economico… “. E Giorgio Bolza: “Per cantare le tue virtù in poesia, per poter dire come sei buono, è un po’ poco un sonetto, ci vorrebbe un poema coi fiocchi, o panettone…”. Per un milanese si potrebbe dire che il panettone non è solo un dolce: difatti al meneghino espatriato o lontano per lavoro porta il respiro della grande Milano…. Al sire sono stati dedicati anche inni, come leggiamo nel volumetto della Libreria Milanese: “…E’ la gioia dolce di Milano, cara e antica creazione… oltre che buono ti hanno fatto tondo, per farti fare il giro del mondo…”. E ancora: “Quando vedo sulla tavola Sua Altezza il Panettone divento subito allegro e gli canto una canzone: la canzone che lo consacra re di tutti i dolci… Tanto il povero che il ricco ovunque ti rendono omaggio… Ingemmato di frutti canditi, sei gustoso e raffinato…”. “Chi ha impastato per primo il panettone ormai è vecchio come Noè - scriveva in alcuni suoi versi Augusta Tonta -…Evviva Milano, evviva il panettone - ormai tutti sappiamo che sei il re dei bombon”.






mercoledì 6 dicembre 2017

Da bambina la chiamavano la ballerina


 

ANNAMARIA CAPODIFERRO


UNA VITA PER LA DANZA





Ore e ore trascorse in treno o


in pullman per raggiungere i


luoghi in cui insegnavano bravi
 

maestri. Ogni lezione era per


lei un’occasione di crescita. La


sua scuola a Crispiano è seguita.


Ha danzato con grandi talenti




Franco Presicci
Annamaria con Carla Fracci
Da bambina era per tutti ”la ballerina”. L’osservavano mentre accennava passi di danza e immaginavano la sua vocazione. Confermata quando Annamaria Capodiferro in terza elementare ebbe dall’insegnante l’incarico di creare una coreografia, e il risultato entusiasmò al punto che dalla scuola convocarono i genitori per renderli partecipi della scoperta. Contenti tutti, soprattutto il padre, assiduo frequentatore di balere, dove era apprezzato per i suoi virtuosismi, che gli valsero anche un premio. “Ma nella mia famiglia non si parlava di danza classica, per cui io non avevo esempi da imitare.
Annamaria balla il tango
Tutto nacque in me: la gioia di muovermi sulle punte dei piedi, di piroettare, d’inventare figure con il suono della musica. Poi quella gioia divenne più forte: non potevo non fare ‘developé’, spaccate, cabriole... Erano tutto per me la danza classica, quelle moderna e contemporanea”. Si è avvicinata anche al valzer, al tango; e se n’è invaghita, pur rimanendo legata all’arte che ha nell’albo d’oro libellule come Carla Fracci, Maya Plisetskaia, Sylvie Guillem, famosa in tutto il mondo (danzò con Nurejev, lasciandolo incantato, ed ebbe una luminosa carriera al Balletto dell’Opera di Parigi) ... Ha appreso tutto quello che c’era da apprendere anche del tango, che approdò in Europa nel 1890 ed ebbe il suo periodo più felice nel mondo nel 1920. Sulle prime suscitò polemiche, commenti superficiali, pregiudizi, e qualcuno lo definì una “tarantola tropicale”, ignorando che nel tango si sposano musica e poesia; che il tango è eleganza, fantasia, passionalità, abilità, modo di espressione anche fisica, linguaggio. E’ sinuoso, sensuale… Nel tango i “partners” diventano farfalle, volano, dominano la pista, provano e seminano emozioni. Annamaria, che ammira i più grandi seguaci della musa Tersicore, ha studiato il tango con Stefania Di Cosmo a Taranto, dove entrambe hanno allestito uno spettacolo sulle musiche di Astor Piazzolla, che, nato nel ’21 a Mar de la Plata da un barbiere suonatore di fisarmonica per svago, divenne un astro del pianoforte e del jazz a New York. Aveva soltanto tredici anni, quando intascò i primi spiccioli interpretando il ruolo di strillone in una pellicola in cui recitava come protagonista l’argentino Carlos Gardel, oltre che attore, compositore e figura di notevole rilievo nell’ambito del tango, e non solo.
Annamaria con Giovanni Di Lonardo
Rientrato nella città natale, venne arruolato in un gruppo che suonava il tango; vinse una borsa di studio, trasmigrò a Parigi, dove trovò chi lo convinse a smettere l’attività di compositore classico per abbracciare quel “sentimento triste che si balla”, come Borges definì appunto il tango. Compose circa 800 musiche di ogni genere, avviò il “Tango nuevo”; nel ’72 comparve in “Teatro 10”, trasmissione televisiva con Mina. ”Uno dei più valorosi musicisti”, chiosa Annamaria, che ha tra l’altro esplorato anche la storia di musiche e ballo nato in Argentina e in Uruguay, e vanta nomi eccellenti: da Antonio Todaro a Pepito Avellaneda, a Miguel Valmaceda… (molti gli italiani).

Annamaria Capodiferro a sinistra
Annamaria, che oggi ha 49 anni, li conosce molto bene, conosce gli stili, le doti, le opere… Nativa di Laterza, la città nei pressi della bimare, nota per il suo pane e per i numerosi reperti archeologici estratti da sotto la sua pelle, divorando libri e facendo tanta pratica, Annamaria è entrata nel mondo della danza classica e moderna a Taranto, quindi è passata a Lecce, dove ha ballato al Politeama Greco. Dopo Lecce, altri studi di danza a Firenze, e poi diploma di insegnante di scuola elementare a Matera, capitale europea della cultura 2019, la terra dei sassi riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. Instancabile, tenace, ha continuato ad impegnarsi alla Fondazione Piccinni di Bari; ha seguito laboratori con personaggi importanti, da Marco Pierin, negli anni ’80-90 etoile della Scala di Milano, a Ekaterina Maximova, allora prima ballerina del Teatro Kirov, in Russia, a Stefania Di Cosmo, prima ballerina dell’Opera di Roma. Ha diretto spettacoli di tango con musiche di Piazzolla; ha ballato con Brian & Garrison; ha studiato con Andrè de la Roche, coreografo, ballerino dalla bravura inarrivabile e maestro straordinario.
Annamaria Capodiferro con Di Lonardo
Annamaria alla sbarra












A Taranto ha eseguito anche un passo a due di tango con Giovanni Di Lonardo al Teatro Tatà aperto nel rione Tamburi e realizzato tantissime altre iniziative, che hanno riportato notevoli successi. “Sono nata con la predisposizione per la danza classica e contemporanea. Anche se il tango mi prende particolarmente, perché in questo ballo c’è tutto, soprattutto la vita. Il tango è un contenitore di emozioni”. E sul tango lei fa ancora ricerche. E ascolta questi musicisti, i parolieri come Càtulo Castillo, che a 18 anni ricevette un premio importante con il suo tango “Organito de la tarde”.

Arabesque di Annamaria

Per ogni domanda Annamaria ha una risposta. La “Cumparsita”? “Fu creata nel 1916 a Montevideo come marcetta goliardica per il carnevale di quell’anno dal musicista uruguayano Gerardo Malos Rodriguez, arrangiata come tango dal pianista Roberto Firpo”, che la eseguì la stessa sera al Caffè “La Giralda”, dove si esibiva. Originario di Buenos Ayres, papà bottegaio, Firpo aveva debuttato al Cafè La Marina a La Boca. Chi può dire di non essersi mai cimentato con la “Cumparsita” nelle feste pubbliche o private, ieri come oggi? Quando l’orchestra l’attacca i ballerini esultano, s’intrecciano, mostrando il meglio di sé. Annamaria Capodiferro ha una scuola a Crispiano, dove insegna danza classica, moderna e contemporanea, “che è la mia base”. Ma non trascura il tango e neppure il valzer (le cui origini dondolano fra opinioni contrastanti), considerato prodotto culturale che a suo tempo venne, come il tango, vietato dalle autorità ecclesiastiche e dello Stato (ma erano visti di buon occhio da Lutero). Tango e valzer, ma anche mazurca e samba, erano quelli preferiti dal padre di Annamaria, a cui piace assai vedere gente che volteggia in queste danze e in quelle caraibiche.




Sala studio
Annamaria Capodiferro
In ogni parte d’Italia il ballo va alla grande, nelle balere, nelle scuole, nelle serate in famiglia. “La danza è un percorso che aiuta a vivere, dà forza”, per Annamaria. E Lutero: “I balli sono stati inventati per consentire ai giovani d’imparare come comportarsi gli uni con gli altri”. Grazie alla sua bimba, avuta a quarant’anni, la vita di Annamaria ha subito un cambiamento, ispirato da “Viaggio di donna”, spettacolo di teatro-danza scaturito da una sua idea accesa alla lettura del libro di Pincola Estes. “La danza delle grandi madri”; e con essa la volontà di raccontarsi come donna di oggi. In questo viaggio c’è appunto la sintesi della sua biografia. E’ piacevole conversare con Annamaria Capodiferro. Si confida, si confessa. E’ sincera, spontanea, pacata, serena. Non ricorre mai a frasi ad effetto, non usa enfasi. Si apre con spontaneità, come se si annotasse in un diario. Per essere una danzatrice di successo basta il talento? “Assolutamente no: occorrono ore, ore e ancora ore di lavoro e di studio, determinazione, carattere, forza”. Che cosa è altro la danza? “La danza è cultura”. E’ vero che a cinque anni lei ascoltava la musica da sola e muoveva passi e assumeva posizioni che con il tempo ha riscontrato essere quelli tipici della danza? Me lo hanno riferito persone che conosco a Crispiano. “E’ vero, ma non avevo cinque anni, bensì quattro”. C’è qualche talento di Crispiano che dovrebbe essere ricordato? “Sì, Pierpaolo D’Amico, che si è trasferito a Milano, dove ha studiato alla Scala e adesso danza con la Compagnia di Budapest. Era un mio allievo”. Quindi lei ha avuto un ruolo importante nella formazione del giovane. Silenzio.
Annamaria non è solita vantarsi. Aggiunge di essere contenta del seguito che ha la sua scuola a Crispiano. Pur appassionata di balli popolari, rimane una deliziosa, garbata, virtuosa ballerina classica, che ha mietuto tanti applausi. “Ricordo che per studiare dovevo spostarmi continuamente da Laterza, per raggiungere i luoghi in cui insegnavano ottimi maestri. Mi rivedo magra con i capelli raccolti, con il borsone pieno di body, scarpette, scaldamuscoli. Non mi annoiavano le giornate passate in treno o in pullman, consapevole com’ero che ogni appuntamento per una lezione era occasione di crescita e una nuova opportunità”. La danza l’ha resa la donna che è. “Ho vissuto intensamente il mio percorso artistico”. Il cammino continua. La conversazione si è conclusa, mentre sul telefonino mi arrivava l’invito ad un ballo per gli auguri di Natale. Non ci andrò; ma quando anni or sono ci sono andato ho ammirato giovani, anziani, addirittura vegliardi volteggiare allacciati in giri di valzer, tango… dopo aver gustato piatti prelibati e sorseggiato un bicchiere di rosato di Puglia o di Coca Cola, la bibita che circola in Italia dal 1927. Il ballo affascina, coinvolge, trascina, emoziona anche chi sta solo a guardare.